Se l’industria produce 100, la finanza pretende una “tangente” che va da 50 a 70. I parassiti stanno letteralmente divorando le aziende, cui impongono costi finanziari mostruosi. L’Unione Europea sta dalla parte della finanza e lascia al suo destino l’industria. La quale, complici i dirigenti – reagisce in un solo modo, e cioè tagliando posti di lavoro. E’ la crisi europea “spiegata” dall’economista francese Laurent Cordonnier, co-autore di un importante studio dell’università di Lille, che dimostra che è proprio la rendita finanziaria ad aver cannibalizzato il lavoro in Europa, provocando l’attuale disastro. «L’aumento del costo del capitale – o piuttosto del suo sovraccosto – sulla scia della finanziarizzazione dell’economia, spiega le performance deludenti che le vecchie economie sviluppate hanno offerto negli ultimi trent’anni: il ritmo fiacco dell’accumulazione di capitale, l’aumento delle diseguaglianze, il boom dei redditi finanziari, la persistenza di un massiccio fenomeno di sottoccupazione».
«Avendo ormai capito che i nostri squilibri interni non possono risolversi in una gara infinita e fratricida tra i ventisette paesi europei per guadagnare Laurent Cordonniercompetitività gli uni contro gli altri», scrive Cordonnier in un intervento su “Le Monde Diplomatique” ripreso da “Megachip”, «il progetto che ci viene proposto ora mira ad aumentare la nostra competitività nei confronti del resto del mondo». Al culmine dei suoi sforzi, “l’Europa nel suo insieme” riuscirà a risanare le bilance commerciali dei suoi paesi membri, contro quelle dei partner esterni? «Aspettiamo impazienti – ironizza l’economista – che l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ci impongano di rafforzare la competitività del “mondo nel suo insieme”, perché ritrovi una buona salute commerciale contro i marziani».
Conti alla mano, sarebbe stato logico aspettarsi che l’Europa si liberasse dall’ossessione per il costo del lavoro, indagando sull’altro costo che pesa, quello del capitale. E cioè: l’insieme dei mezzi di produzione, vale a dire macchinari, immobili, stabilimenti, mezzi di trasporto, infrastrutture, brevetti, software. «Questo sforzo produttivo – spiega Cordonnier, membro dello staff economico del centro studi Clersé di Lille – rappresenta in qualche modo il “vero” costo del capitale, quello che occorre necessariamente spendere in termini di lavoro per fabbricare questo capitale, inteso qui nel senso di “capitale produttivo”». In un anno, sono le “spese di investimento”, che i contabili nazionali chiamano “formazione Proteste contro il Wtolorda di capitale fisso”. In soldoni: circa il 20% della produzione annuale delle imprese francesi.
E fin qui, tutto bene. Ma il costo del capitale produttivo non è l’unico a pesare sulle imprese, che «quando vogliono acquistare e mettere in funzione questi mezzi di produzione, devono anche remunerare le persone o le istituzioni che gli hanno procurato il denaro necessario», cioè il “capitale finanziario”. Così, al “vero” costo del capitale vanno aggiunti gli interessi versati ai creditori e i dividendi pagati agli azionisti. Problema: «Gran parte di questo costo finanziario (gli interessi e i dividendi) non corrisponde ad alcun servizio economico reso, che si tratti di servizi offerti alle imprese stesse o alla società nel suo insieme». Attenzione: si tratta di una spesa «completamente improduttiva, derivante da un fenomeno di rendita e di cui si potrebbe evidentemente fare a meno, organizzandosi altrimenti per finanziare l’azienda, per esempio immaginando un sistema basato unicamente sul credito bancario, fatturato al minor costo possibile».
Se una prima parte di questo esborso potrebbe essere classificata come ragionevole “rischio d’impresa” per tutelare creditori e azionisti di fronte al pericolo di un fallimento, e un’altra parte di questi redditi può essere giustificata dal costo di amministrazione dell’attività finanziaria, la differenza restante – non giustificabile – dà l’esatta misura della “rendita indebita”. «Potemmo definirla come un “sovraccosto del capitale”, dal momento che si tratta di un costo sopportato dalle parti interessate interne all’impresa, che alza inutilmente il “vero” costo del capitale». E non sono spiccioli. Anzi: è proprio l’enormità del costo della rendita parassitaria a mettere in crisi le aziende, come dimostra lo studio del Clersé, commissionato dai sindacati transalpini. Nel 2011, il “peso morto” della finanza parassitaria sull’economia reale francese valeva 94,7 miliardi di euro. «Se lo rapportiamo al costo “vero”, ossia all’investimento in capitale Wall Streetproduttivo per lo stesso anno, che era di 202,3 miliardi di euro, otteniamo un sovraccosto del 50%».
Se poi si paragona questo sovraccosto alla sola parte di investimento che corrisponde all’ammortamento di capitale, si ottiene addirittura una “zavorra” del 70%. «Questo significa che quando i lavoratori francesi riescono a produrre le loro macchine, le loro fabbriche, i loro immobili, le loro infrastrutture, a un prezzo totale di 100 euro all’anno (compreso il margine di profitto), le aziende che utilizzano questo capitale produttivo in realtà pagano tra i 150 e i 170 euro all’anno, per il solo fatto di dover pagare una rendita, non giustificata economicamente, a chi ha loro prestato del denaro». Un tale “sovraccosto del capitale”, aggiunge Cordonnier, «non è né necessario né ineluttabile». Tant’è vero che nel periodo 1961-1981, cioè quello che ha preceduto il “big bang” finanziario mondiale, il sovraccosto del materiale era in media del 13,8%, diventando addirittura negativo alla fine del “trentennio glorioso” (1973-1974), per via del ritorno dell’inflazione. Poi, come sappiamo, è entrata in azione la finanza globale.
«Sono state le politiche restrittive innescate dalla rivoluzione monetarista che, in un primo tempo, hanno fatto impennare la rendita finanziaria spingendo i tassi di interesse reale a livelli altissimi», spiega l’economista. «Quando poi, negli anni ‘90, i tassi hanno cominciato a scendere, il versamento accelerato dei dividendi ha preso il loro posto. Il potere azionariale, rimesso in sella dall’aumento vertiginoso degli investitori istituzionali (fondi risparmio, fondi pensione, compagnie di assicurazioni), si è poggiato sulla disciplina dei mercati, l’attivismo azionariale e la nuova governance aziendale, per non lasciarsi scappare la rendita». Una “rivoluzione” speculativa a cui la politica non si è certo opposta. E nemmeno l’industria ha fatto resistenza: «L’esplosione del sovraccosto del capitale negli ultimi trent’anni è la diretta conseguenza dell’innalzamento della norma finanziaria imposta alle aziende con l’aiuto dei loro dirigenti, i cui interessi sono stati allineati a quelli degli azionisti».
Gli effetti del cataclisma «sono incalcolabili» e anche oscuri, perché «in questo campo, ciò che è più importante non è forse ciò che appare più visibile: questi trasferimenti di ricchezza verso i creditori e gli azionisti rappresentano una manna, che non ha smesso di aumentare (dal 3% del valore della produzione nel 1980 al 9% di oggi) e che non va né nelle tasche degli imprenditori (a meno che non siano anche proprietari delle aziende) né nelle tasche dei lavoratori». Ma c’è di più: «Come calcolare infatti l’enorme spreco in termini di ricchezze mai prodotte, posti di lavoro mai creati, progetti collettivi, sociali, ambientali mai intrapresi per il semplice fatto che la soglia redditizia annuale da raggiungere per poterli attuare è del 15%?». Quando il fardello che pesa sulle aziende, pubbliche o private, si vede maggiorare il suo costo reale del 50 o addirittura del 70%, «come stupirsi del debole dinamismo delle nostre economie sottomesse al giogo della Borsafinanza? Solo un mulo – scrive Cordonnier – potrebbe sopportare un carico equivalente al 70% del proprio peso».
Il problema, aggiunge l’economista francese, non sta tanto nel fatto che questo sovraccarico finanziario drena i fondi necessari per gli investimenti. È piuttosto vero l’inverso: «Il denaro distribuito ai creditori e agli azionisti è l’esatta controparte dei profitti di cui le imprese non hanno più bisogno, dal momento che esse limitano, di loro propria iniziativa, i progetti di investimento alla porzione suscettibile di essere più redditizia». La domanda giusta allora è la seguente: «In un mondo in cui vengono intraprese azioni, individuali o collettive, solo a condizione che offrano tra il 15 e il 30% in termini di redditività, quanto è grande il cimitero delle idee (buone o cattive che siano) che non hanno mai visto la luce perché avrebbero portato solo dallo 0 al 15%?».
http://www.libreidee.org/2013/09/la-finanza-parassitaria-il-cancro-che-uccide-il-lavoro/
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