Perché Obama ha deciso di armare i ribelli in Siria
La Casa Bianca assisterà anche militarmente l'opposizione siriana. Il tentativo di bilanciare le recenti vittorie delle truppe di Asad e la volontà di non passare alla storia come il presidente che non è intervenuto. Al G8 in Irlanda del Nord, nessun accordo con Putin. Too little, too late?
[Carta di Laura Canali]
[Carta di Laura Canali]
"Perché ora?" Questa è la domanda che rimbomba nei think-tank di Washington a pochi giorni dalle dichiarazioni di Ben Rhodes, il vice consigliere nazionale per la Sicurezza di Obama, che ha annunciato al mondo intero l’intenzione americana di sostenere l’opposizione siriana anche con assistenza militare.
Il game changer, come è noto, sono le prove raccolte dall’intelligence americana che attestano l’uso di armi chimiche del regime di Asad, incluso l’agente nervino sarin, “usate in più occasioni in scala ridotta nel corso del 2012”. La linea ufficiale, dettata da Rhodes è "il presidente Obama ha deciso di rafforzare il sostegno all’opposizione in termini di quantità e qualità, includendo assistenza militare diretta alla Coalizione dell’opposizione siriana."
Ma perché Obama ha fatto questa scelta dopo oltre 2 anni di conflitto, più di 90 mila vittime, in un momento in cui la Siria sembra aver imboccato un vicolo cieco e ben dopo che altre nazioni - Francia in primis - avevano già preso posizione?
Nelle ultime settimane la guerra di Siria è stata segnata da una serie di eventi che ne allontanano la fine e che hanno indebolito notevolmente il fronte dei ribelli: il maggiorecoinvolgimento di Hezbollah nel conflitto, la riconquista di Qusayr da parte del regime, il gemellaggio di Jabat al Nusra con al Qaeda in Iraq. Una situazione che Obama non poteva continuare ad ignorare.
“Too little, too late” dicono qui a Washington, troppo poco e troppo tardi. In effetti, sulla quantità e qualità dell’aiuto l’amministrazione non poteva essere più vaga. Una situazione ben descritta da David Aaron Miller, per oltre due decenni negoziatore in Medio Oriente, con presidenti repubblicani e democratici.
“La Siria”, scrive Miller “è la classica arena dove gli Stati Uniti sono destinati a perdere. Tutti argomentano, anche molto correttamente, che è una tragedia umanitaria e che moralmente non si può assistere inermi. La verità è che è meglio essere senza cuore che senza criterio”, dice citando Ryan Crocker, ex ambasciatore Usa a Damasco. Ciò detto, secondo Miller, Obama non può più sottrarsi al richiamo della Storia.
La Siria sarà pure una trappola mortale (Vietnam o Somalia, che in molti evocano), ma quale presidente vuole essere ricordato come quello che è rimasto a guardare, rischiando di ripetere la drammatica inerzia degli anni Novanta rispetto ai massacri in Rwanda e Bosnia?
In effetti, Obama non può contare su un prossimo mandato cui rinviare la questione.Nonostante i sondaggi dicano chiaramente che la popolazione americana è contraria a immischiarsi in una nuova guerra, resta altissimo il rischio che nel 2016, alla fine del suo incarico, Obama venga ricordato come il presidente che non è intervenuto.
La famosa frase sulla linea rossa delle armi chimiche, pronunciata lo scorso agosto, probabilmente è andata un po’ al di là delle intenzioni di Obama, la cui volontà di tenersi fuori da ogni genere di conflitto era evidente. Resta il fatto che l’opinione pubblica ha registrato un impegno chiaro dell’amministrazione a sanzionare l’uso di armi chimiche da parte del regime di Asad.
Se la percezione internazionale fosse che il presidente non ha tratto le dovute conseguenze, ne andrebbe della credibilità dell'intera politica estera americana. Ci sarebbero inevitabili ripercussioni su altri scenari, a partire dall’Iran, sul cui programma nucleare la Casa Bianca ha posto un’altra linea rossa: impedire a Teheran di dotarsi di armi nucleari. Se la Repubblica Islamica dovesse ritenere che le linee rosse sono superabili senza conseguenze, potrebbe essere tentata dall'andare a vedere l’eventuale bluff. Ad aggravare il tutto, la considerazione del senatore repubblicano John McCain, per il quale in Siria si sta combattendo una guerra per procura con l’Iran, che ha sin qui spalleggiato senza esitazioni il regime di Damasco.
“È un problema senza soluzione, ‘ a problem from hell’” dice a Limes David Ignatius, il più famoso e rispettato editorialista del Washington Post. “Cosa poteva mai fare Obama, quando 90 mila persone sono state uccise e armi chimiche sono state usate? Sul piatto c’erano 3 opzioni: quella di un impegno più muscolare, l’invio di truppe; il non fare nulla, come l’amministrazione ha fatto per un bel po’ di tempo; oppure si poteva scegliere la terza opzione, quella che sta nel mezzo: fare poco. Ed è quello che ha fatto Obama, scegliendo l’opzione meno rischiosa”.
“Ora la questione è un’altra”, continua Ignatius. “Bisogna vedere se il presidente sarà in grado di sostenere le forze moderate tra i ribelli, per vincere la ‘seconda guerra siriana’. La prima è quella per rimuovere Bashar al Assad e credo che con il tempo ci si arriverà. Il punto è di capire chi vincerà la seconda, quella per il controllo del paese. Gli estremisti del jihad o gruppi più moderati, capaci di lavorare assieme alle minoranze cristiane e alauite, guidati dal generale Salim Idriss?
Qualunque sia la natura del maggiore impegno di Washington nei confronti di Damasco,questo non potrà non avere ripercussioni su Mosca.” Per Ignatius il timing della scelta americana non è solo legato alle prove dell’uso di armi chimiche, evidentemente fondamentali. Ma si tratterebbe di un modo di far pressione sulla Russia, di cui gli Usa “hanno mendicato sin qui l’aiuto, per negoziare la transizione per il dopo Bashar, senza successo. Non è un caso”, continua, “che questa decisione arrivi poco dopo il vertice con il premier cinese Xi Jianping. Un vertice molto positivo, che permette alla Casa Bianca di sentirsi in qualche modo più forte nei confronti di Mosca.”
Diverso il parere di Faysal Itani, ricercatore dell’Hariri Centre for the Middle East all’Atlantic Council, che ha detto a Limes: “Si tratta di un’arma a doppio taglio; da un lato i ribelli potrebbero avere più voglia di partecipare a Ginevra 2, ora che hanno una sorta di “leva militare”, dall’altro i russi useranno la promessa dell’impegno americano per indebolire i negoziati. Dubito che Ginevra avrà luogo nei tempi programmati.”
“L’unico modo di tenere Mosca nel negoziato è riguadagnare terreno militarmente. Al momento la situazione è squilibrata a favore di Assad. Solo se gli Stati Uniti e gli alleati saranno in grado di armare i ribelli quanto, se non più, dell’esercito lealista, i russi si siederanno in modo serio e non fittizio al tavolo del negoziato di Ginevra”.
“Non c’e’ piu’ tempo”, ci dice Zona, nome in codice di un’attivista di Syrian Emergency Task Force, una ong che oltre a essere presente nelle zone conquistate dai ribelli nella Siria nord svolge una costante pressione sull’amministrazione Usa. Dall’ufficio di Washington l’organizzazione, che ha gestito parte degli aiuti alimentari americani, ha tenuto legami con il Congresso, in particolare con McCain. “Siamo riusciti a portare qui McCain”, ci racconta Zona, che ci parla dalla base dell’organizzazione ad Antiochia, in Turchia. “Lui, ma anche tutti i nostri contatti del Dipartimento di Stato, come l’ambasciatore americano in Siria, Robert Ford, e il vice coordinatore per le transizioni in Medio Oriente, Mark Ward, hanno lavorato al nostro fianco per convincere Obama e la sua cerchia che non possiamo più aspettare, abbiamo bisogno di aiuti concreti”.
Per Zona, oltre a piccole armi e munizioni servirebbero lanciatori anticarro e terra-aria. Ma, soprattutto, quello che l’opposizione di Assad chiede a gran voce è un sistema antiaereo e antitank, nonché la creazione di una no-fly zone.
Che qualcosa si stia muovendo è certo. Non è casuale che gli F16 e i missili Patriot americani, al momento in Giordania per esercitazioni, siano destinati a restare per un periodo ben più lungo di quello previsto. Benchè resti escluso l’invio di truppe, sempre più repubblicani guardano con favore all'ipotesi della no-fly zone alla frontiera con la Giordania. Non la escludono neppure alcuni membri del congresso democratici come Bob Menendez, il presidente della commissione Esteri del Senato.
Un‘ipotesi che vede la forte opposizione del Pentagono e di buona parte degli esperti della zona. Soprattutto per il rischio di un maggiore coinvolgimento militare, con costi, anche politici, tutti da valutare.
Insomma, se è vero, come molti analisti sostengono, che è naif pensare che Obama abbia cambiato strategia, come sempre che i fatti contano più delle intenzioni. Così il presidente che voleva passare alla storia come il pacificatore fra Islam e Occidente rischia di restare imprigionato nella più sanguinosa crisi mediorientale degli ultimi decenni.
Ancora una volta, volente o nolente, l’accordo va raggiunto con chi siede al Cremlino. L'esito negativo dell'incontro di ieri tra Obama e Putin al G8 in Irlanda del Nord dimostra che sulla guerra siriana l'intesa con la Russia è ancora molto lontana.
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