La strategia fallimentare del colosso Eni
di Salvo Ardizzone
A breve il Governo dovrà pronunciarsi sulle circa 350 nomine ai vertici delle società a partecipazione pubblica in scadenza; per importanza strategica e dimensioni, il colosso che svetta sulle altre è l’Eni. Non è una società come le altre, attraverso lei si determina la politica energetica del Paese e buona parte di quella estera, e questo non è un fatto solo economico, con buona pace della stupefacente superficialità e impreparazione della nostra cosiddetta “classe politica”. Il suo dominus indiscusso è Paolo Scaroni, dal 2005 ne è Amministratore Delegato e Direttore ed ora è candidato per il 4° mandato; dopo un simile periodo di gestione (nove anni son tanti, anche in presenza di programmi a lungo termine), sarebbe opportuno, anzi, lo è, comprendere se una società così importante abbia agito nell’interesse del Paese nel suo complesso, o abbia fatto sponda a quello dei potenti di turno.
Nel 2013 l’utile c’è ed è di 5,2 mld di €, ma attenzione, a un prezzo medio per barile di greggio di 108,7 $, un risultato che lascia interdetti se si pensa che nel 2005, all’avvento di Scaroni, il prezzo era di 54 $ e l’utile di 8,8 mld; e se si tiene conto che l’Eni stessa ha dichiarato che per ogni dollaro in più di prezzo realizza 200 ml di guadagno netto, perché gli utili sono calati? Non solo. Quell’utile nel 2013 c’è grazie alla vendita ai cinesi di una quota del giacimento scoperto in Mozambico (e sono 4,21 mld di $) ed alla rivalutazione della partecipazione in Artic Russia (la partecipazione nello sfruttamento degli immensi giacimenti russi del circolo polare). La vendita di asset (tradotto: di gioielli di famiglia e di opportunità di lavoro) è quella che da anni ha permesso all’Eni di distribuire grassi dividendi e di avere una grossa liquidità; ma ha senso scoprire giacimenti per venderli ai concorrenti e fare cassa? E fino a quando può durare così, sperando in nuovi ritrovamenti? Né questa politica ha prodotto benefici sull’indebitamento: era 10,4 mld nel 2004, per passare a 15,5 nel 2012, malgrado quell’anno l’Eni avesse venduto un pezzo grosso, Snam Rete Gas.
È ovvio che simili risultati si traducano in una mediocre quotazione in borsa, dove si guarda al sodo; è ridicola la storia che non ha fatto peggio di Bp (che ha scontato i colossali risarcimenti per il disastro del Golfo del Messico) o della Repsol (che ha avuto i giacimenti argentini nazionalizzati); Exxon e Chevron sono ai massimi storici, e d’accordo che per loro c’è lo “shale gas” a spingerle, ma anche Total e Shell hanno fatto meglio. E visto che s’è toccata la questione del gas, nel 2013 l’Eni ne ha avuto una perdita per 1,5 mld di €; si, c’è stata una diminuzione della domanda (la crisi c’è) e la concorrenza è aumentata, ma è stato sempre Scaroni, nel 2007, a rinnovare con la Russia i contratti “take or pay” (un impegno a pagare il gas anche se non si ritira), annunciati come un affarone e risultati una perdita secca che nel 2014 sarà di 2 mld. E ancora ci sono le perdite della raffinazione (600 ml nel 2013) e il nervo scoperto della petrolchimica, con la transazione alla chimica verde, intrapresa nel 2010, bloccata (per mancanza di soldi) e il rischio chiusura per Priolo e Gela (con conseguenze esplosive nel contesto occupazionale siciliano).
Ma sono anche altre le ragioni di perplessità: la Saipem è una società controllata dall’Eni, un gioiello di competenze ingegneristiche nel settore idrocarburi, in perdita (159 ml nel 2013) per le scelte e le opportunità messe in campo dalla società controllante. Per risolvere il problema (e fare ancora cassa), invece di valorizzare una risorsa ritenuta preziosa in campo internazionale, l’Eni vuole fonderla con Subsea 7, una società norvegese assai più piccola che, con l’8% del capitale, si prenderebbe la guida operativa e finanziaria. Un altro pezzo pregiato (e invidiato) dell’industria italiana che si perde: se questa è una soluzione dite voi!
Continuando nell’esposizione, il settore dell’Esplorazione e Produzione era sempre stato l’asse portante dell’Eni, retto da quello storico “partito degli ingegneri”, formatosi ai tempi di Mattei, e che è stato la tradizionale colonna portante della società, artefice di tanti suoi successi. Ma i tempi sono cambiati: nel 2013 l’estrazione è stata di 1,6 ml di barili contro 1,7 ml nel 2005, e la produzione di petrolio e gas proviene per il 90% da progetti avviati negli anni 90 o ai primi del 2000. D’accordo, la situazione in Libia, Nigeria e Iraq è quella che è, ma questo vale anche per le altre compagnie che, prudenzialmente, calcolano in difetto la produzione prevista per poter offrire stime attendibili e programmarsi, a differenza di quanto da tempo non faccia l’Eni.
Ma la redditività è calata soprattutto per la scelta strategica di spostare la produzione dal greggio al gas, che nel 2013 ha superato il petrolio. Il fatto è che per il gas sono necessari investimenti di gran lunga maggiori: non si può caricarlo direttamente su una superpetroliera spedendolo in qualsiasi parte del mondo, servono impianti costosi, gasdotti e se non c’è un mercato di consumo vicino (come nel caso del vastissimo giacimento in Mozambico) son dolori. Ma le stesse riserve complessive sono ora squilibrate sul gas (e in questo, sarà pensar male, ma molto possono aver inciso i rapporti più o meno interessati con la Russia e Gazprom); il gas ha una redditività immediata assai più bassa, e come detto necessita di investimenti più pesanti che si traducono in utili assai più scalati nel tempo, e nel breve e medio periodo le risorse finanziarie vengono falcidiate.
A tutto questo bisogna aggiungere una considerazione di base: come abbiamo detto, il settore Esplorazione è stato punta di lancia dell’Eni, ma con la gestione Scaroni le sue capacità operative sono scadute paurosamente. Ne è prova lampante il caso del giacimento Kashagan, in Kazakstan: è il più grande giacimento scoperto negli ultimi trent’anni nel mondo. Nel 2000, sotto la gestione Mincato, l’Eni s’aggiudicò la gestione operativa di quel capriccio della natura, che equivaleva ad una fortuna immensa, surclassando colossi come Exxon, Shell e Total; ma negli anni successivi è stato un susseguirsi di errori che hanno fatto slittare l’inizio della produzione, e hanno condotto il Kazakstan a togliere all’Eni la guida del progetto; ora la società ha solo il 16,8% del consorzio di sviluppo, e i kazaki rifiutano di riconoscere i 40 mld di $ di costi sostenuti dalle società petrolifere.
A beneficio dell’attuale gestione, qualcuno sottolinea le assunzioni di giovani (peraltro molte con contratti a termine), ma si sorvola sui pesantissimi tagli di personale italiano, per lo più tecnici specializzati con preziose esperienze maturate in settori strategici, mandati in mobilità lunga (addirittura 7 anni) o in cassa integrazione. Quanto ci sia di logico nel disperdere tali competenze (senza toccare minimamente i livelli occupazionali con competenze assai più basse negli altri stati, al puro scopo di compiacere i governanti locali, e non intralciare con vertenze i vari accordi più o meno ufficiali) lasciamo a voi giudicare.
A conclusione d’un simile quadro, che comprende anche numerose inchieste per corruzione internazionale e l’emergere di responsabilità in altre relative a disastri ambientali, notiamo che l’unica cosa che sia cresciuta all’Eni sia la retribuzione di Scaroni, che è passata da 2,2 a 6,5 ml di € per il 2013.
Da quanto sin qui detto, è più che evidente che la situazione della più strategica delle aziende italiane necessita della massima attenzione della politica, e non per salvaguardare “equilibri” o bassi interessi di bottega, ma per dare sviluppo ad un comparto essenziale alla crescita di una nazione, e preservare un patrimonio di competenze e capacità che il mondo (e non è retorica) ci invidia.
Per una volta avrebbe senso invocare l’interesse nazionale, se per i signori del Palazzo ciò potesse avere un significato. Una Nazione che si chiami tale (ma è il caso dell’Italia?) ha necessità almeno d’uno straccio di politica energetica; alla sua testa occorrerebbe un manager che ne conosca i problemi in profondità e agisca di conseguenza, senza essere il comodo collettore degli interessi immediati del potente di turno. Purtroppo, coi tempi che tirano e con gli uomini sulla piazza, di certo non sarà questa la soluzione.
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