Reddito di cittadinanza: inevitabile, ma come finanziarlo?
Il “reddito di cittadinanza” non è uno slogan, né soltanto un’uscita di sicurezza provvisoria per milioni di disoccupati: se la tecnologia continuerà a far sparire posti di lavoro, quella del sussidio statale garantito sarà l’unica soluzione possibile, perché – senza redditi – crollerebbero, per sempre, anche i consumi su cui si regge l’economia di mercato. «Questa – sostiene Giorgio Gattei – è la prospettiva economica a venire, se non proprio dei nostri nipoti, almeno dei pronipoti», considerata l’evoluzione dello scenario economico-sociale: competizione esasperata e globalizzata, con la corsa al ribasso del costo del lavoro, per prodotti che costino sempre meno e necessitino di sempre minor manodopera. Ecco perché «la discussione attuale sulla “messa in cantiere”, fin da subito, di una qualche misura di “reddito di cittadinanza” potrebbe essere un’utile procedura d’avvicinamento ad una realtà prossima ventura». Sottinteso: il potere sovrano decisionale, incluso quello monetario attualmente detenuto dalla finanza privata, deve tornare per intero all’autorità pubblica.
In un intervento su “Sbilanciamoci”, ripreso da “Megachip”, Gattei parte dall’analisi storica della disoccupazione. C’è quella tradizionale, “fisiologica” e legata alle oscillazioni del mercato, tra domanda e offerta. E’ la disoccupazione causata dalla “insufficienza di domanda effettiva”, cioè la domanda assistita da moneta: essendo necessaria manodopera per produrre determinate merci, se queste non trovano domanda adeguata, l’occupazione produttiva necessariamente calerà. Da qui il rimedio prospettato da Keynes: rilanciare la domanda tramite l’aumento dei consumi, da parte delle famiglie e dello Stato. «C’è però anche un altro tipo di disoccupazione, di cui poco si parla e di cui aveva ben detto Giorgio Lunghini oltre un decennio fa», quando ha osservato che la relazione biunivoca e stabile tra produzione di merci e occupazione di lavoro vivo è mutata: è ancora vero che, se la produzione cala, anche l’occupazione cala. Ma non è più vero l’inverso: anche che se la produzione riprende, l’occupazione resta al palo. Per “colpa” di un nuovo soggetto economico determinante: le macchine.
Siamo alle prese con la “disoccupazione tecnologica” individuata già nel lontano 1821 da un economista delle élites come David Ricardo: sostituendo i macchinari al lavoro vivo, la disoccupazione cresce nonostante gli investimenti, perchè non c’è modo di rioccupare gli operai “disoccupati dalle macchine”. «La disoccupazione attuale – sostiene Gattei – è soprattutto “ricardiana”, essendo dovuta al trapasso dal fordismo ad una “maniera post-fordista” del produrre», che non è solo “sostituzione d’informatica al lavoro”: «Ne risulta un eccesso di manodopera che viene espulsa dalla produzione e che, non sapendo come gestirla, resta lì (almeno finché sopporta la propria esclusione)». Nuova disoccupazione, comparsa in Italia dagli anni ’90, ma allora «recuperata mediante la “precarizzazione” del mercato del lavoro», basata su un presupposto brutale: «A salari stracciati, le imprese avrebbero assunto quei lavoratori “usa e getta”». In effetti così è stato, «ma con la brutta conseguenza di un calo storico della produttività del lavoro». E’ evidente: «Se si possono costringere i precari a lavorare di più, non gli si può però imporre di lavorare meglio».
Da qui, continua Gattei, la comparsa di una occupazione flessibile a bassa produttività, contro la quale ha provato a muoversi la cosiddetta “riforma Fornero”, imponendo alle imprese – dopo un certo tempo – l’obbligo di trasformare le occupazioni a tempo determinato in posti fissi, «così che, gravate da un maggior onere salariale, si decidessero a cavalcare anche la via dello sviluppo tecnologico». Problema: «Le imprese, dovendo passare alle “macchine”, hanno preferito licenziare i precari piuttosto che stabilizzarli, e così quella disoccupazione “ricardiana” è tornata sulla scena», cronicizzandosi. Come recuperarla? Ne parlò direttamente lo stesso Keynes nel 1930: «L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera, e il sistema bancario e monetario del mondo ha impedito che il tasso d’interesse cadesse con la velocità necessaria al riequilibrio».
Ecco dunque, per Keynes, «una nuova malattia, di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la “disoccupazione tecnologica”». Tradotto: «La disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera». Come rimedio a questa disoccupazione, il grande economista inglese proponeva di “lavorare meno per lavorare tutti”, a parità di salario, prospettando «turni giornalieri di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore». Una buona soluzione, «affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile».
Nonostante qualche sforzo in questa direzione «durante la miglior stagione del fordismo», cioè negli anni ’60 e ’70 del Novecento, ormai ai disoccupati si offrono soltanto “lavori socialmente utili”, mentre nell’industria gli orari di lavoro restano invariati, per operai sempre meno numerosi. Lavoratori resi superflui? Lo stesso Ricardo vedeva bene il problema: «Se le macchine potessero fare tutto il lavoro che adesso fanno i lavoratori, non ci sarebbe più domanda di manodopera e nessuno avrebbe più titolo a consumare qualcosa, a meno che non fosse un capitalista». Evidentemente, aggiunge Gattei, lo stesso Ricardo non immaginava che ci potessero essere “lavori socialmente utili”. Ma il punto è: come metterli in esecuzione, visto che comunque costano?
Problema enorme, oggi più che mai: lo Stato, ricattato e colpevolizzato per un debito pubblico “privatizzato” e gonfiato dalla speculazione bancaria, nell’Eurozona è costretto a mendicare valuta bussando alla finanza privata. La sovranità monetaria è il cardine di tutto il pensiero di Keynes, per il quale l’economia democratica crolla non appena si toglie allo Stato la possibilità di intervenire, emettendo moneta in misura teoricamente illimitata e a costo zero, a sostegno della spesa pubblica e quindi dell’occupazione. Scenari che, nell’euro-regime governato dalla Bce, oggi sono fantascienza: per l’élite al potere – l’oligarchia neoliberista, neoclassica e neomercantile che ha pilotato la crisi, puntando al massimo profitto e al culto dell’export tagliando i diritti del lavoro – lo Stato come attore economico determinante, unico possibile garante dei cittadini, semplicemente non esiste più. C’è una linea di frattura sempre più netta: se Keynes mirava al benessere dell’interacomunità socio-economica, gli oligarchi si limitano ad imporre la legge darwiniana del più forte, senza curarsi delle conseguenze.
Dal punto di vista strettamente tecnico, l’analisi di Gattei cita la prospettiva già delineata dall’economista marxista Piero Sraffa, autore nel 1960 del saggio “Produzione di merci a mezzo di merci”. Ne parla anche Paolo Sylos Labini in uno scritto dedicato «all’ipotesi estrema di una produzione interamente robotizzata». Ovvero: «Se producessero senza più impiegare lavoratori, i capitalisti guadagnerebbero un profitto “massimo”, non avendo più salari da pagare. Ma siccome devono vendere le merci prodotte, avrebbero necessità di una domanda effettiva da parte dei “non più lavoratori”, e a questo scopo dovrebbero accontentarsi di realizzare, in moneta, un profitto minore di quello “massimo”, destinando la differenza al reddito di quei non-lavoratori».
Sarebbe questo, conclude Gattei, il “reddito di cittadinanza” di cui si parla oggi: quote di profitto a cui i capitalisti rinuncerebbero per assicurarsi la domanda effettiva per smaltire le merci prodotte. Nuovi salari, quindi, che i neo-occupati otterrebbero anche attraverso “lavori socialmente utili”, in settori strategici gravemente trascurati: ripristino e messa in sicurezza del territorio, energia pulita, servizi sociali. Lo stesso Grillo, secondo cui sarebbe sufficiente attingere a denaro già esistente, semplicemente tagliando gli sprechi della burocrazia, sembra restare all’interno di un circuito economico chiuso, dove cioè la moneta circolante è sempre la stessa: non viene emessa da nessuno degli attori citati ma, semplicemente, passa di mano in mano. In realtà, sostengono i sovranisti, il quadro può cambiare davvero ad un’unica condizione: che l’autorità pubblica torni ad emettere liberamente valuta, sottraendo alla finanza speculativa privata l’attuale monopolio della circolazione monetaria. A quel punto, un “reddito di cittadinanza” per lavori utili sostenuto da un atto economico inizialmente “virtuale” – il bancomat della banca centrale – si tradurrebbe immediatamente in stipendi e consumi, cioè in solida economia reale.
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