Masse disintegrate, corpo elettorale e astensione.
Ludopatia, droga, psicofarmaci, istruzione scadente, intontimento mediatico si sono combinati con disoccupazione di lungo periodo, sotto-occupazione, svalutazione del lavoro, precarietà e redditi reali in picchiata sostituendo al cittadino il neoschiavo precario, o l’escluso, e alle vecchie classi dominate le masse disintegrate, culturalmente, politicamente e socialmente.
Questo è quanto è accaduto in Italia negli ultimi decenni, in un processo di adattamento dell’ordine sociale e della popolazione alle esigenze sovrane del grande capitale finanziario, in vista di un irreversibile cambiamento storico che comporta la perdita della sovranità – e la sua cessione “volontaria” al mercato – nonché l’instaurazione di una “società aperta di mercato” sul modello nordamericano.
Sappiamo che in America pochi sono coloro che votano, partecipando al rito fondamentale della democrazia, e che non vanno a votare milioni di poveri senza speranza, di emarginati, di esclusi dai “diritti” che un sistema definito democratico, liberale, avanzato dovrebbe sempre e comunque assicurare a tutti. Inoltre, in America l’ordine classista è sempre stato incerto, ambiguo, sfumato, profondamente diverso da quello europeo, tanto che, semplificando molto, forse un po’ troppo, si può dire che là vale da sempre la brutale dicotomia fra ricchi e poveri, fra coloro che i soldi li hanno e quelli che arrancano dormendo in roulotte, o addirittura nei vicoli. Fra quelli che possiedono ricchezza e patrimoni e milioni di disperati che vivono di scampoli di assistenza pubblica, di carità privata o di espedienti, c’è sempre stato un robusto ceto medio a fare da “cuscinetto”. Se non che, la crisi iniziata nel 2006 ed esplosa l’anno successivo ha ridotto i numeri dell’area di relativo, moderato benessere, espresso in forme rigorosamente consumistiche, anche nel cuore del neocapitalismo trionfante, cioè in Nord America. Anzi, i numeri del ceto medio statunitense, che in parte significativa va alle urne giustificando il “sistema democratico” e liberale, hanno iniziato a ridursi fin da prima della cosiddetta “crisi subprime”, man mano che si affermavano le logiche finanziarie neocapitalistiche e avanzava la globalizzazione economica. Per la verità, la brutale e semplificatrice dicotomia fra ricchi e poveri, che sembra non basarsi sulla “mediazione” di classi sociali definite e intese come mondi culturali, nasconde una nuova strutturazione della società, un ordine classista ancor peggiore di quello imposto dal capitalismo dello scorso millennio. La dicotomia fra global class e pauper class, pesando sempre meno la presenza, sul piano sociale, del ceto medio figlio del welfare. Un ordine dai tratti inequivocabilmente neofeudali.
I poveri, gli impoveriti, coloro che vivono quotidianamente situazioni di marginalità e di difficoltà e che possono sperare al più in lavori temporanei mal pagati, sono poco propensi a votare, a partecipare, a entusiasmarsi per contese politiche posticce, sempre più simili a partite di calcio (football americano, per l’oltre oceano capitalistico) o a corse dei cani truccate con la finta lepre che gli corre davanti, che avvantaggiano soltanto allibratori (bookmakers) e grossi scommettitori. Sanno per istinto ed esperienza i poveri senza speranza, immersi in un ordine sociale che gli è estraneo e nemico, disintegrati culturalmente e privati anche delle loro origini, che nessun politico e nessun “comitato elettorale”, una volta incassato i voti, prenderà le loro parti e cercherà di migliorarne le condizioni di vita. Capiscono che gli attoruncoli della politica, ben pettinati, coperti di cerone, truccati come puttane da bordello che mentono nascondendo le loro vere intenzioni, sono lì per fare ben altri interessi. Gli stessi che hanno ridotto tutti loro, i loro padri e i loro figli in quelle condizioni. Pur non avendone piena coscienza e pur non rivoltandosi come dovrebbero, i poveri, le neoplebi, le masse disintegrate da questo capitalismo, sanno che la politica liberaldemocratica e tutti i suoi attori sono al servizio di forze determinate e molto concrete, d’interessi di classe avversi a quelli della maggioranza della popolazione. Non sono certo al servizio di una “volontà popolare” ipotetica e non meglio identificata, o di uno stato ridotto a puro testimonial dei mercati e alla loro completa mercé.
Sia ben chiaro. Una cosa è non votare perché s’intuisce, quasi d’istinto, che la democrazia liberale è una truffa e perché le necessità di sopravvivenza prendono il sopravvento su tutto. Altra cosa è opporsi al sistema avendo alle spalle un’organizzazione antagonista e uno straccio di progetto politico. I poveri schiacciati dai ricchi, come nella società nordamericana, le neoplebi e le masse culturalmente disintegrate alle loro spalle, in questo momento, non hanno proprio nulla. Sono abbandonate a se stesse, in balia del controllo e della manipolazione sistemici. E soprattutto della “legge del mercato”.
Non troppo dissimile da questa è la situazione sociopolitica che oggi caratterizza l’Italia. Un intenso processo di trasformazione dell’ordine sociale, inasprito e velocizzato dalla crisi economica strutturale, dalla dipendenza dall’euro, dal ricatto del debito e dalla “cessione” della sovranità nazionale ha fatalmente trasformato il paese in “società aperta di mercato”, attraversata da flussi migratori e caratterizzata dal dilatarsi dei differenziali di ricchezza, potere e prestigio fra ricchi e poveri. Anche qui, come in America, il ceto medio arretra, risucchiato verso il basso dall’applicazione delle dinamiche neocapitalistiche. Anche qui la povertà dilaga e fanno capolino problemi alimentari per una parte significativa, ma sempre più invisibile, della popolazione. Eppure costoro, i cui interessi vitali sono calpestati, godono delle “libertà civili” e dei “diritti politici”. Sembra una beffa, un’insopportabile ipocrisia, ma è la sostanza del sistema liberaldemocratico, puntello politico del neocapitalismo.
Non c’è da stupirsi, alla luce delle precedenti considerazioni, che nei ballottaggi per le comunali del 9 e del 10 giugno abbia votato meno della metà degli aventi diritto: solo il 48,5% a livello nazionale. Davanti al dato dell’astensione in crescita, fino a superare la soglia della metà più uno degli aventi diritto, i giornalisti e i politici, come il solito, stendono cortine fumogene, danno interpretazioni capziose del fenomeno, cercano di giustificare quel sistema e quegli interessi dominanti che hanno prodotto l’astensionismo di massa. Ne prendiamo in considerazione due.
1) Secondo alcuni il segnale non sarebbe poi negativo come si crede, perché testimonierebbe una “maturazione” nella società italiana in senso nordamericano (sempre più simili agli Usa, infatti), in cui alcuni votano e altri se ne stanno “alla finestra” a guardare quel che succede. L’astensione non sarebbe un male, secondo questa interpretazione, ma un segnale che stiamo raggiungendo finalmente la piena “maturità democratica”, testimoniata dal numero di votanti sempre più basso.
2) Altri, più banalmente, pongono l’accento sulla distanza fra “i problemi della gente”, ossia quelle bazzecole come il lavoro che non c’è, il reddito che cala, i costi della vita che salgono, l’insicurezza materiale e psicologica che tende a esplodere, e le cose, meno concrete ma forse più nobili, più eteree (come il “sesso degli angeli” nella Costantinopoli assediata dagli ottomani), di cui suole occuparsi la politica di questi tempi. In tal caso, la conclusione di rito di politici e giornalisti d’apparato è che la politica deve tornare a occuparsi “dei problemi della gente”, affinché tutto si sistemi per il meglio e l’astensionismo diminuisca. Ben sapendo, però, che ciò non è possibile se non a livello di puro annuncio, perché la politica risponde esclusivamente ai centri di dominio neocapitalistici, come Bruxelles, Francoforte, la City londinese, Washington e Wall Street. Non importa se il calo della partecipazione al voto, che ha spaccato letteralmente in due il cosiddetto corpo elettorale, si registra in occasione di consultazioni comunali, e quindi amministrative, di rango e interesse inferiore rispetto alle politiche. La “disaffezione” nei confronti del voto liberaldemocratico, del sistema politico ascaro del mercato e della finanza, dei politici opportunisti, incapaci, servi e corrotti si manifesta, ormai, in ogni occasione elettorale.
Delle due giustificazioni in merito fenomeno dell’astensionismo la prima (1) sembra essere la migliore, perché originaria, andando alla sorgente del problema, e la seconda (2) soltanto derivata, in quanto effetto delle grandi trasformazioni socioeconomiche, culturali e politiche verificatesi in Italia nell’ultimo ventennio. Infatti, se l’astensionismo in occasione delle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 che hanno incoronato “premier” Berlusconi per la prima volta era di poco inferiore al 14% degli aventi diritto (facendo base sul proporzionale), nelle ultime politiche del 24-25 febbraio 2013, con altra e famigerata legge elettorale, il dato della non partecipazione è cresciuto alla camera fino a quasi il 25%. Naturalmente la situazione economica e sociale del 1994 era incomparabilmente migliore dell’attuale, nonostante il passaggio del ciclone “Tangentopoli/ Mani pulite”, l’avvio delle privatizzazioni e il crollo del sistema di cambi europeo a stretti margini di oscillazione valutaria (Sme), nel settembre del 1992, che travolse letteralmente la lira. Ma è nelle ultime comunali che si è raggiunto un minimo storico di partecipazione del corpo elettorale alla ritualità del voto liberale e democratico. Questo perché il processo di trasformazione in senso neocapitalistico della società italiana, che diventa “società aperta di mercato” più simile a quella modello nordamericana, è già a buon punto, e di ciò si compiacciono, facendo credere che sia una cosa positiva per tutti, i servi mediatici e politici delle aristocrazie finanziarie. Pochi ricchi, infedeli nei confronti dei luoghi d’origine, un piccolo strato intermedio integrato dal neocapitalismo nel sistema e un oceano sempre più vasto di poveri, fra i quali un certo numero di immigrati, i cui interessi non hanno e non avranno rappresentanza alcuna. Il fatto, poi, che la politica indigena costosa e bizantina, arroccata in “zone rosse” ben protette, si occupi del “sesso degli angeli” anziché dei “problemi della gente” (con brutta espressione politico-giornalistica), è una conseguenza della predetta trasformazione in senso neocapitalistico, che ha tolto alla politica nazionale il bastone del comando (e l’autonomia decisionale particolarmente in campo monetario) per offrirlo a Bruxelles, Francoforte, alla City londinese, Washington e Wall Street. Dei “problemi della gente” in Italia, quindi, si occupano gli organismi sopranazionali che ci controllano, in armonia con gli interessi elitistici. I politici indigeni devono soltanto obbedire ed eseguire.
Come chiarito in precedenza, i poveri tendono a non votare, se intuiscono (pur senza poterselo spiegare con analisi articolate) di essere completamente invisibili e dimenticati nel nuovo ordine, di non avere alcuna possibilità di tutela dei propri interessi dentro il sistema. Le masse disintegrate almeno una cosa l’hanno intuita. Quelli che dovrebbero eleggere, recandosi alle urne, non saranno mai i loro rappresentanti, ma sono e resteranno soltanto dei nemici. Dei collaborazionisti al servizio dell’occupatore del paese il cui compito è mentire, dissimulare, annunciare miglioramenti che non si verificheranno, continuando a spremerli per conto dei padroni globali. I sindaci dei capoluoghi di provincia eletti nell’ultima tornata di amministrative (undici in totale, tutti “di sinistra”, ossia del pd e appendici) non sfuggono alla regola dell’asservimento della politica ai poteri esterni, al mercato, alle capitali del nuovo “impero del male” in occidente. Così Ignazio Marino a Roma, il burocrate piddino del “daje” che gongola sorridendo per la vittoria, ma piagnucola un po’ per l’astensione, così Enzo Bianco ex senatore del pd a Catania e vecchia volpe della politica (già sindaco della città siciliana nel lontano 1988). Persino Letta è intervenuto pro domo sua, dichiarando che queste elezioni rafforzano l’attuale esecutivo, nato da un inciucio e dal tradimento delle promesse elettorali. Quel che è più grave è che nonostante alcune affermazioni apparentemente preoccupate, per l’elevata astensione dal voto delle masse, questi farabutti (intendiamo sia i politici come Marino, Bianco e Letta, sia i giornalisti prezzolati) sanno che non v’è pericolo imminente. Infatti, non esistono movimenti alternativi organizzati, disposti a dar battaglia al sistema, né, tantomeno, vi sono tracce di programmi politici nuovi, antiliberisti e antieuro. Così, almeno per ora, la rabbia e il dissenso delle masse disintegrate si manifestano con la crescita dell’astensionismo, quando non si “stemperano” attraverso l’adesione ai distruttivi circenses offerti dal sistema, come ad esempio il gioco d’azzardo diffuso e la droga. Peccato, però, che i giochi ci sono, sono irresistibili e coinvolgenti, ma il pane manca sempre di più. I farabutti politici e giornalistici sanno che le esplosioni di follia individuale e i suicidi per ragioni economiche segnano quest’epoca, in cui antagonismo vero e lotta armata sono pressoché assenti. Quindi capiscono di non correre particolari rischi. Perciò è molto probabile che il sistema potrà sopportare, o addirittura volgere a suo favore, elevati tassi di astensione dal voto nel corpo elettorale, che altro non è, in parte significativa, se non la massa di dominati culturalmente disintegrata, soggetta a privazioni crescenti in termini di risorse e di diritti, che al pari di molti poveracci nella società “modello” nordamericana può fare una sola cosa: non andare a votare e continuare ad arrancare.
Con profonda tristezza
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