spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

giovedì 30 maggio 2013

CERCASI SCHIAVO

Lavorare comunque e dovunque, ecco i nuovi schiavi…



Un rapido riepilogo delle ultimissime notizie, semmai ce ne fosse bisogno. In Italia, come ha appena ricordato il sottosegretario al Lavoro, Carlo Dell’Aringa, dall’inizio dell’anno le persone che perdono il posto sono 40 mila al mese, e ovviamente vanno ad aggiungersi a tutte le altre che lo avevano già perso in precedenza.
A sua volta, la prima analisi Coldiretti/Swg su “I giovani e la crisi” attesta che una percentuale crescente di giovani, compresa tra il 30 e il 50 per cento a seconda del titolo di studio e di altre caratteristiche individuali, è disposta a fare tutto quello che capita, dallo spazzino al pony express e all’operatore di call center. Inoltre, citando dall’Ansa, «il 43 per cento si accontenterebbe di un compenso di 500 euro al mese a parità di orario di lavoro, mentre il 39 per cento sarebbe disposto ad un maggiore orario di lavoro a parità di stipendio». E ancora: «più di un quarantenne su quattro si mantiene grazie alla “paghetta” dei genitori che aiutano finanziariamente i figlioli fino ad età avanzata».
Infine, si fa per dire, il governo pensa di mitigare la disoccupazione giovanile ricorrendo al trucchetto del job sharing, prontamente ribattezzato “staffetta generazionale”. Come spiega il Sole 24 Ore (qui) «Un lavoratore prossimo alla pensione accetta una riduzione del proprio orario di lavoro fino al pensionamento, conseguentemente l’azienda assume un giovane con un contratto part time corrispondente alla quota lavoro che residua da tale riduzione fino a sostituire per l’intero la posizione lasciata libera dal lavoratore in uscita».
Tutto chiaro, vero? Sia pure nella loro frammentarietà, legata alle cronache del giorno, si tratta di segnali omogenei. Che vengono a confermare la prospettiva in cui ci sta muovendo già da parecchi anni, ossia da ben prima che la crisi del 2008 fornisse l’alibi di un’emergenza “involontaria”. Importata dall’estero e dunque incolpevole. Profondissima e quindi inderogabile.
Una prospettiva che viceversa è stata accuratamente pianificata, e puntualmente ottenuta. L’obiettivo è una delle trasformazioni strutturali perseguite dai neoliberisti: il lavoro umano come apporto residuale sia ai processi di produzione, sempre più automatizzati grazie all’informatica e al crescente utilizzo di robot che tendono agli androidi, sia alle alchimie finanziarie volte a moltiplicare i capitali per via speculativa.
Il lavoro come qualcosa che è difficile trovare e che, quindi, va accettato anche a condizioni per nulla soddisfacenti, dal tipo di attività alle condizioni in cui lo si svolge. Dalla tutela sempre più esigua dei “diritti”, comprese le assenze per malattia o maternità, agli stipendi sempre più modesti. Insufficienti. Ridicoli.
Il lavoro come una sorta di privilegio, che essendo inseguito da moltissimi pretendenti scatena una lotta – una lotta tra poveri, una lotta al ribasso – a chi è maggiormente in grado di dare di più ricevendo di meno. Un abbassamento delle richieste, retributive e contrattuali, che la retorica della competizione globale cerca di spacciare per una dimostrazione di “sano” adattamento alle nuove sfide dell’economia planetaria, ma che al contrario erode la dignità individuale e costituisce la premessa di una corruzione morale. Non foss’altro perché induce a rapportarsi agli altri come ad avversari, ai quali contendere con ogni mezzo l’assunzione iniziale, la riconferma successiva e gli eventuali (molto eventuali) avanzamenti di carriera.
Il lavoro come un ricatto, al quale la stragrande maggioranza dei cittadini non può sfuggire perché altrimenti non avrà nessuna fonte di reddito. E quindi, o prima o dopo, nessuna possibilità di provvedere al proprio mantenimento. O sostentamento, che sembra all’incirca la stessa cosa ma non lo è: così come i discount non sono esattamente i supermercati. Così come le case piccole, e inserite nel palazzi-alveare delle vecchie e nuove periferie, non sono esattamente le abitazioni in cui si dovrebbe vivere. Così come l’intrattenimento televisivo, infarcito di pubblicità e di mille altre manipolazioni, non è esattamente un’attività ricreativa, e men che meno culturale.
Federico Zamboni - http://www.ilribelle.com

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