Lo Specchio Delle Illusioni
In Europa lo Stato moderno ha ereditato, secolarizzandolo e adattandolo ai bisogni del capitalismo, il modo di rappresentazione specifico del cristianesimo. La democrazia, l’altro nome dello Stato repubblicano, con le istituzioni e le forme di rappresentazione che l’accompagnano e la santificano — di cui i media sono uno dei pezzi forti — è davvero il cielo idealizzato del mondo terrestre del capitale. Essa richiama, per tanti versi, l’universo cristiano con i suoi fedeli, i suoi riti, la sua gerarchia ecclesiastica e perfino i suoi eretici. I cittadini continuano, sotto costumi profani, a comportarsi in parte come cristiani. Talvolta protestano contro gli abusi dei ministri terrestri del dio repubblicano e contro l’inganno degli interpreti della sua parola, magari in maniera impertinente, insultandoli, cacciandoli e a volte bastonandoli. Capita loro pure di rifiutare di partecipare alle cerimonie che presiedono alla scelta e all’incoronazione dei loro eletti attraverso la mediazione delle elezioni — ancora il gergo religioso! Ma non arrivano al punto di infrangere l’idolo e rifiutare totalmente il sistema globale di rappresentazione che lo avviluppa. Là restano paralizzati, come colpiti da sacro terrore dinanzi all’enormità del sacrilegio. Malgrado le loro spinte di rabbia e di sfiducia, essi continuano a credervi e ad accettarlo fintanto che assuma le sembianze più amabili, finga di ascoltare le loro lamentele e di avvicinarli ai rappresentanti del popolo sovrano. E molti contestatari che sputano sulla spettacolarizzazione della realtà effettuata dall’istituzione statale non esitano tuttavia a cedere al piedino dei media, se non a sollecitarli. È quindi impossibile limitarsi alla stigmatizzazione dei media per le omissioni, le deformazioni, le falsificazioni, le calunnie, il loro ruolo di ausiliario della polizia, ecc. Altrimenti la rottura con le basi stesse dello Stato, così come furono costituite all’epoca della presa del potere da parte della borghesia, rimarrebbe incompleta. Perché le illusioni sulla possibilità di usare i media sono la conseguenza e la consacrazione di quelle, concomitanti alla creazione e al consolidamento dello Stato repubblicano, sulla possibilità di prendere parte alle assemblee sovrane, in primo luogo l’assemblea parlamentare, con l’obiettivo di trasformarle in tribune di diffusione delle idee sovversive. L’aureola che circondava, all’indomani della Comune di Parigi, la rappresentazione parlamentare doveva alla fine — vista la moltiplicazione dei dispositivi e delle mediazioni operati in tutti gli ambiti della vita sociale, e visto il relativo riassorbimento della politica nell’economia e nel sociale — essere allargato alla rappresentazione in generale, man mano che il capitale coltivava e addomesticava l’insieme della società. È così che lo spettacolo della politica, ormai decrepito, è divenuto lo spettacolo del mondo attraverso l’intermediazione dei media, con la cultura che qui gioca il ruolo di una delle protesi essenziali della politica. Ora, ad eccezione di qualche setta trotskista lontana erede del preteso parlamentarismo rivoluzionario di origine leninista, nessuno pensa più di partecipare alle elezioni, da quelle presidenziali a quelle municipali, per trasformarle in tribune e per facilitarne il dinamitaggio in caso di insurrezione mirante alla distruzione dell’apparato statale. Viceversa, l’argomentazione di tipo leninista impiegata ieri per giustificare la partecipazione alla tribuna parlamentare, viene ripresa quasi tale e quale oggi per affermare che i rivoluzionari possono utilizzare, all’occorrenza, le tribune rappresentate dai media per comunicare le proprie idee — la comunicazione è la trascrizione del termine ormai sospetto di propaganda. Beninteso, di fronte alle reticenze che generano la loro tattica «sottile», grosso modo altrettanto «sottile» di quella preconizzata da Lenin in La malattia infantile per il parlamentarismo, gli adepti della dissidenza giornalistica depongono gli stessi bemolle sullo stesso spartito trito e ritrito, con promesse solenni del tipo: «L’uso dei media non sarà il centro della nostra attività». Ma, non appena si mette piede negli ingranaggi della rappresentazione, è difficile tirarlo fuori e non è raro che a poco a poco il corpo vi passi per intero, testa compresa. In Umano, troppo umano, Nietzsche ha riassunto bene il processo che porta gli individui, che credono sia possibile giocare al più cattivo con il dominio senza disporre di potere reale, a diventarne dei volgari partigiani: «A furia di credere di poter indossare senza conseguenze i ruoli più diversi, a poco a poco l’individuo cambia. Alla fine, egli non è altro che ciò che credeva di sembrare». Allo stesso modo, l’antico pregiudizio religioso sulla onnipotenza attribuita alla parola è lungi dall’essere superato, pregiudizio che ancora ieri giustificava il fatto che i partiti leninisti creino delle fazioni parlamentari, che non dovessero partecipare alle commissioni parlamentari e svolgere soltanto un ruolo di tribuni dall’alto dei loro pulpiti, alla maniera di Danton. La storia del parlamentarismo rivoluzionario ha mostrato che i presunti propagandisti erano diventati, come regola generale e nel dettaglio, dei deputati nel senso usuale del termine, con una fraseologia rivoluzionaria che camuffava la loro attività di amministratori dello Stato. Allo stesso modo oggi si immagina talvolta di poter fare irruzione sul terreno della rappresentazione mediatica per fecondarlo, in qualche maniera, col linguaggio della sovversione. Ma solo nella mitologia biblica le trombe distrussero le mura di Gerico. Simili concezioni, che accordano virtù quasi magiche al verbo rivoluzionario, potevano ancora creare illusioni quando il sistema di rappresentazione ufficiale del capitalismo lo trattava costantemente da nemico, lo censurava, lo ignorava, ecc. Ma la storia delle spinte rivoluzionarie, in particolare quelle degli anni 1960-70 e le loro successive sconfitte, è passata di là. Le loro caratteristiche inedite, fra le altre la loro critica embrionale della separazione politica e del ruolo di servi del potere statale svolto dai media istituzionali, hanno colpito in profondità l’attuale sistema di rappresentazione. Lungi dall’essere la semplice conseguenza dell’evoluzione propria del capitale, esso è anche l’esecutore testamentario delle illusioni di queste rivolte, in particolare della tendenza a caricare il linguaggio di maggiori potenzialità sovversive di quante ne possa avere. Lo Stato democratico ha potuto così effettuare la neutralizzazione delle idee che portavano, più che la loro proibizione. Ormai il fossato è stato quasi del tutto riempito. Quando forme espressive ostili alla società sembrano prendere vigore e acquisire una qualche influenza fuori dai sentieri battuti, i peggiori nemici non sono più i censori, bensì i recuperatori e gli esperti in riconoscimento sociale e statale, dai giornalisti ai sociologi. La democrazia funziona così: le cose che non può ignorare, le riconosce per meglio annichilirle svuotandole di significato. Per gli irriducibili che rifiutano di stare al gioco, resta ovviamente la coercizione. Ma più le opposizioni che lo Stato riesce a sedurre appaiono sovversive, più il sistema di rappresentazione ci guadagna. L’essenziale è che esse non sfocino in qualche tentativo di trasformare il mondo. In materia, il ruolo dei media è determinante. È da parecchio tempo che essi non si accontentano più di ridipingere con colori cangianti il mondo capitalista e di stigmatizzare in blocco qualsiasi tentativo di metterlo in discussione. Sebbene la menzogna resti necessaria, soprattutto la menzogna per omissione, il dominio attuale è capace di assorbire senza grosse crisi la sequela di orrori che accompagnano il suo corso. Anche la contestazione può talvolta diventare merce, in particolare quando evolve sul terreno politico e culturale. Anche qui, il recupero del rifiuto embrionale della politica che aveva corso negli anni 1960-70 è stato decisivo. La politica detta rivoluzionaria è diventata oggetto di rappresentazione ufficiale, dopo aver perso il suo sale realmente rivoluzionario. I media ci guadagnano la facoltà di rappresentare in maniera reificata le rivolte, di purgare le passioni di ciò che hanno di sovversivo, di trasformare i sogni e i tentativi di sconvolgere il mondo in inoffensive chimere che non cambiano nulla nella vita di coloro che partecipano allo spettacolo della consolazione cittadinista. I media hanno di fatto informazioni allo stesso titolo del resto, masse di dati da selezionare, da trattare e da rigurgitare agli spettatori disincantati dallo spettacolo quotidiano del mondo, che va di crisi in catastrofe, ma sempre alla ricerca di nuove droghe mediatiche, eccitanti quanto effimere. Così gira il mondo della merce più moderna. Di fronte al disamore verso la politica e alla degenerazione dei partiti in clan occupati a gestire gli affari correnti, lo Stato ha riconosciuto che non poteva più dettare legge alla società solo coi soliti mezzi: con la coercizione esplicita e l’amministrazione delle popolazioni. Può darsi che si palesino crepe piene di rischi e il potere ha orrore del vuoto. Ecco il motivo del giro di vite, ma anche della partecipazione di tutti allo spettacolo offerto dalla democrazia. La censura esiste sempre di tanto in tanto, ma è essenzialmente l’autocensura a dominare. Il domino moderno non può sopravvivere tramite la sola costrizione imposta in quanto tale e senza far partecipare coloro che opprime, a livelli diversi, al mantenimento della propria subordinazione. Esso favorisce quindi la messa in atto di mediazioni destinate a inquadrare e neutralizzare i tentativi di contestazione embrionale, come i colloqui, le discussioni contraddittorie e le consultazioni, trasmesse dai media e di quando in quando organizzati con loro, ovvero da loro stessi, in cui le associazioni di cittadini sono invitate a dibattere e a dare il proprio parere sulle «questioni della società», già risolte per lo più nei corridoi del potere statale, al fine di partecipare alla cogestione della propria alienazione. I media, anche quelli più contestatari, costituiscono quindi degli importanti elementi del dispositivo di neutralizzazione in corso di istituzionalizzazione. Essi hanno il ruolo di collegamento con lo Stato per colmare il vuoto generato dall’atomizzazione della vita quotidiana, per «risocializzare i cittadini» e «ridar loro il gusto alla politica», come affermano i sociologi. In altri termini, i media partecipano pienamente al processo di selezione e di riconoscimento da parte dello Stato di leader, associazioni, lobby, ecc. che si presume rappresentino le forze d’opposizione che agitano la cosiddetta società civile. Al punto che, contrariamente a quanto capitava all’epoca del riconoscimento da parte dello Stato delle associazioni sindacali, oggi basta che questa o quella vedette della contestazione sia riconosciuta dai media come interlocutore perché si dica che è rappresentativo. Senza nemmeno sapere di chi e di che cosa. I media attribuiscono così una qualche apparenza di forza a cose che non ne hanno affatto o quasi. In simili condizioni, l’idea di utilizzare a vantaggio dei rivoluzionari le nicchie mediatiche che il potere concede loro non è solo illusoria. È francamente pericolosa. La loro sola presenza sul palcoscenico non basta a eliminare il peso dell’ideologia nella mente degli spettatori. A meno di confondere potenza d’espressione e potenza di trasformazione e di credere che il senso di ciò che si esprime, con la parola, con la penna, con l’immagine, ecc., sia dato a priori, senza doversi preoccupare di sapere chi ha il potere di farlo. Potrebbe esistere un contenuto sotto forme diverse senza esserne intaccato. Vecchia illusione del mondo reificato in cui le attività appaiono come cose in sé staccate dalla società. Ma più di altre forme d’espressione, la forma sovversiva del linguaggio è la garanzia dell’incorruttibilità del significato. Non è immunizzato contro i pericoli della comunicazione. Basta esprimerlo sul terreno del dominio per minarne il significato, ovvero per invertirlo. È esattamente ciò che accade sul terreno dei media quando si accetta di intervenirvi, anche se in modo insolente. Separati dall’insieme delle condizioni che partecipano a dar loro senso, le idee contestatarie, anche quando i media non ne cambiano nemmeno una virgola, appaiono tutt’al più come opinioni equilibrate sul mercato mediatico delle idee, come interpretazioni del mondo, ossia interpretazioni fra le altre della trasformazione del mondo, in breve delle prese di posizione senza conseguenze reali. In fondo succede oggi, ad esempio nelle tavole rotonde, quanto è già successo all’epoca della nascita del parlamentarismo. Alcuni deputati dell’opposizione, come Jaurès, talvolta persino in parlamento pronunciavano discorsi incendiari che li conducevano in prigione. Eppure, accettando di intervenire sul terreno della rappresentazione politica, la cui chiave di volta era allora la Camera dei deputati, essi portavano acqua al mulino del dominio. Inizialmente pensavano forse di diffondere il loro discorso rivoluzionario in direzione delle popolazioni che, plasmate da illusioni repubblicane, potevano ascoltare ciò che veniva dibattuto nell’aula parlamentare. In realtà, stavano passando dall’altro lato dello specchio e cominciavano a dialogare con lo Stato. Nessuna sorpresa che siano finiti, in genere, col parteciparvi, ovvero assumendone la direzione. Poiché, parafrasando La società dello spettacolo, lo spettacolo non è riducibile ad un insieme di immagini, ma costituisce il sistema di rappresentazione dominante, integrato ai rapporti sociali fra persone, mediatizzate da immagini, rapporti propri del dominio del capitale. Parte integrante del dominio, i media partecipano ugualmente alla strumentalizzazione dei rapporti sociali. Ma gli spettatori, anche quelli più informati, non restano meno spettatori. Tra loro dominano il silenzio o il ritornello dei cliché proteiformi quanto banali che corrispondono al rapporto fra merci. Restano isolati insieme. Tutte le forme di linguaggio sono loro estranee e si autonomizzano come discorsi del potere. Lo spettacolo è il contrario del dialogo, dell’incontro e della ricerca di affinità per combattere il sistema che ci separa e ci tratta come oggetti manipolabili a volontà. Il rifiuto del principio di utilizzare i media non deriva quindi dalla morale, dal disgusto di sporcarsi le mani, dall’illusione di poter sfuggire da soli o in pochi alla totalità del mondo che ci strumentalizza, ecc. All’impossibile, nessuno è obbligato. Ma se è vero che ciò che possiamo realizzare dipende anche da noi, rifiutiamo forme di strumentalizzazione come il partecipare allo spettacolo mediatico, e trattiamole come meritano: da nemiche. Non dimentichiamo mai che le modalità espressive separate dall’attività sovversiva, per quanto sovversive possano sembrare, finiscono per perdere il loro sapore. Sta a noi mettere in atto le nostre modalità di dialogo, con la penna o con altri mezzi che ci sono propri.
Tratto da: http://www.italianinsane.info/2013/lo-specchio-delle-illusioni/
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