di Vittorio Pezzuto
Luciano Violante non pensa che il Pd abbia forzato i tempi sulla decadenza di Berlusconi. «Dal giudizio della Giunta per le Elezioni al voto di oggi sono trascorsi circa due mesi. Non sono pochi, in genere si fa più presto. Anche perché qui si trattava semplicemente di decidere se il Senato fosse costituito regolarmente o meno. Prolungare ulteriormente i tempi avrebbe significato violare i diritti del senatore subentrante».
L’aula di Palazzo Madama si è espressa col voto palese, innovando la prassi parlamentare.
«Non è vero. Al Senato il regolamento prevede che le decisioni su un suo componente vadano prese a scrutinio segreto quando si decide ad esempio su un ordine di cattura. Ma in questo caso si è votato sulla legalità di costituzione dell’organo».
Il Cav teme ora una gara tra magistrati a chi lo arresta per primo.
«Non credo ci sia questo rischio».
Lei è stato insultato dalla base del Pd e tacciato di eresia soltanto per aver condiviso la necessità di un ricorso alla Consulta per la legittimità della legge Severino…
«Quelle cose non le ho mai dette. In realtà mi ero limitato a sostenere che la Giunta per Elezioni – se lo riteneva opportuno – aveva tutto il diritto di ricorrere alla Corte costituzionale. E avevo aggiunto che il senatore Berlusconi aveva il diritto di difendersi davanti alla Giunta, che pertanto non doveva ridursi a sede puramente formale. Un richiamo che mi era parso necessario dopo che avevo ascoltato alcuni suoi componenti esprimersi nel merito della questione ancor prima di aver ascoltato le ragioni del senatore Berlusconi».
Quando nel 1996 divenne presidente della Camera rivolse un appello alla riconciliazione storica tra destra e sinistra.
«In realtà dissi allora che occorreva riflettere sui motivi per i quali migliaia di ragazzi avevano scelto di servire la Repubblica di Salò invece di combattere per il ritorno della democrazia nel nostro Paese. Però è vero che ancora oggi manca un pieno riconoscimento politico tra le parti. Le colpe di questo clima di tensione continua sono un po’ di tutti. Berlusconi ha impostato tutta la sua storia politica collocandosi come un elemento divisivo, sostenendo ogni volta che chi non stava dalla sua parte in realtà si poneva contro il Paese. Una strada sulla quale è stato però seguito, in modo poco intelligente, dai suoi stessi avversari. Col risultato che per vent’anni ci siamo divisi in berlusconiani e antiberlusconiani anche per effetto delle forza e dell’intelligenza della sua leadership».
La sua parabola è al tramonto?
«Non so nemmeno se si tratta di una parabola. Anche perché nel corso della mia carriera politica ho assistito a molte morti apparenti. E d’altra parte il caso di Beppe Grillo insegna che un leader non deve stare necessariamente in Parlamento».
Le intese al governo si sono intanto ristrette, anche se sono più coese. Non ritiene che l’esecutivo Letta si trovi nella singolare condizione di essere in minoranza all’interno degli stessi partiti che lo sostengono?
«Non credo. Più volte abbiamo assistito a partiti che cambiavano classe dirigente mentre stavano al governo. Penso invece che la caduta di questo esecutivo sarebbe un danno per tutti gli italiani. L’instabilità costituisce per il Paese un handicap enorme. Nella prima Repubblica la durata media di un governo era di un anno, ma all’epoca si poteva quantomeno contare sulla stabilità della linea politica. Ora non è più così e la priorità è diventata quella di mettere in ordine il sistema. Ma per approvare le riforme necessarie occorre che un esecutivo resti in carica per almeno 3-4 anni».
Il caso Cancellieri insegna che per dimettersi sia necessario un provvedimento della magistratura.
«Non è vero: Josefa Idem si è dimessa esclusivamente per ragioni di opportunità».
Il Guardasigilli avrebbe dovuto seguire il suo esempio?
«Non necessariamente. Ha avuto al telefono un’espressione sbagliata di cui lei stessa si è pubblicamente doluta. Ma come ministro non ha svolto alcuna interferenza e mi risulta che in molte altre occasioni è intervenuta in silenzio a favore di detenuti comuni che vivevano situazioni di particolare disagio».
Mancherà adesso dell’autorevolezza necessaria per ricoprire un incarico istituzionale così delicato?
«Queste vicende lasciano sempre il segno, è inutile negarlo. Ma se la persona ha stoffa, queste difficoltà si superano per il bene del Paese e nel migliore dei modi possibili».
La magistratura sembra dettare sempre di più i tempi della politica.
«Ma è così, purtroppo! Lo dimostra l’approvazione della stessa legge Severino. Non le sembra grave che i partiti non abbiano più la forza di selezionare al meglio i loro parlamentari e debbano ricorrere a una legge per stabilire, sulla base di criteri di natura giudiziaria, le condizioni minime di accesso e permanenza nelle Camere?».
Chi sceglierà alle primarie del Pd?
«Voterò per Cuperlo, anche se non so se questo possa avvantaggiarlo…».
Può aiutarci a capire le differenze, in termini di contenuti politici, tra lui e Renzi?
«Stiamo parlando dell’elezione del segretario del Pd e non della scelta di un candidato alla presidenza del Consiglio. Fermiamoci quindi alla differenza tra due diversi modelli di partito: quello immaginato da Cuperlo vuole riprendere a integrare i cittadini nella vita politica, è radicato sul territorio e ricostruisce finalmente legami con gli eletti così come un senso di appartenenza a una comunità. Renzi invece persegue un modello di partito prevalentemente elettorale che a mio avviso non corrisponde alle esigenze della società italiana, che ha bisogno di riconoscersi in nuovi legami politici».
«Non è vero. Al Senato il regolamento prevede che le decisioni su un suo componente vadano prese a scrutinio segreto quando si decide ad esempio su un ordine di cattura. Ma in questo caso si è votato sulla legalità di costituzione dell’organo».
Il Cav teme ora una gara tra magistrati a chi lo arresta per primo.
«Non credo ci sia questo rischio».
Lei è stato insultato dalla base del Pd e tacciato di eresia soltanto per aver condiviso la necessità di un ricorso alla Consulta per la legittimità della legge Severino…
«Quelle cose non le ho mai dette. In realtà mi ero limitato a sostenere che la Giunta per Elezioni – se lo riteneva opportuno – aveva tutto il diritto di ricorrere alla Corte costituzionale. E avevo aggiunto che il senatore Berlusconi aveva il diritto di difendersi davanti alla Giunta, che pertanto non doveva ridursi a sede puramente formale. Un richiamo che mi era parso necessario dopo che avevo ascoltato alcuni suoi componenti esprimersi nel merito della questione ancor prima di aver ascoltato le ragioni del senatore Berlusconi».
Quando nel 1996 divenne presidente della Camera rivolse un appello alla riconciliazione storica tra destra e sinistra.
«In realtà dissi allora che occorreva riflettere sui motivi per i quali migliaia di ragazzi avevano scelto di servire la Repubblica di Salò invece di combattere per il ritorno della democrazia nel nostro Paese. Però è vero che ancora oggi manca un pieno riconoscimento politico tra le parti. Le colpe di questo clima di tensione continua sono un po’ di tutti. Berlusconi ha impostato tutta la sua storia politica collocandosi come un elemento divisivo, sostenendo ogni volta che chi non stava dalla sua parte in realtà si poneva contro il Paese. Una strada sulla quale è stato però seguito, in modo poco intelligente, dai suoi stessi avversari. Col risultato che per vent’anni ci siamo divisi in berlusconiani e antiberlusconiani anche per effetto delle forza e dell’intelligenza della sua leadership».
La sua parabola è al tramonto?
«Non so nemmeno se si tratta di una parabola. Anche perché nel corso della mia carriera politica ho assistito a molte morti apparenti. E d’altra parte il caso di Beppe Grillo insegna che un leader non deve stare necessariamente in Parlamento».
Le intese al governo si sono intanto ristrette, anche se sono più coese. Non ritiene che l’esecutivo Letta si trovi nella singolare condizione di essere in minoranza all’interno degli stessi partiti che lo sostengono?
«Non credo. Più volte abbiamo assistito a partiti che cambiavano classe dirigente mentre stavano al governo. Penso invece che la caduta di questo esecutivo sarebbe un danno per tutti gli italiani. L’instabilità costituisce per il Paese un handicap enorme. Nella prima Repubblica la durata media di un governo era di un anno, ma all’epoca si poteva quantomeno contare sulla stabilità della linea politica. Ora non è più così e la priorità è diventata quella di mettere in ordine il sistema. Ma per approvare le riforme necessarie occorre che un esecutivo resti in carica per almeno 3-4 anni».
Il caso Cancellieri insegna che per dimettersi sia necessario un provvedimento della magistratura.
«Non è vero: Josefa Idem si è dimessa esclusivamente per ragioni di opportunità».
Il Guardasigilli avrebbe dovuto seguire il suo esempio?
«Non necessariamente. Ha avuto al telefono un’espressione sbagliata di cui lei stessa si è pubblicamente doluta. Ma come ministro non ha svolto alcuna interferenza e mi risulta che in molte altre occasioni è intervenuta in silenzio a favore di detenuti comuni che vivevano situazioni di particolare disagio».
Mancherà adesso dell’autorevolezza necessaria per ricoprire un incarico istituzionale così delicato?
«Queste vicende lasciano sempre il segno, è inutile negarlo. Ma se la persona ha stoffa, queste difficoltà si superano per il bene del Paese e nel migliore dei modi possibili».
La magistratura sembra dettare sempre di più i tempi della politica.
«Ma è così, purtroppo! Lo dimostra l’approvazione della stessa legge Severino. Non le sembra grave che i partiti non abbiano più la forza di selezionare al meglio i loro parlamentari e debbano ricorrere a una legge per stabilire, sulla base di criteri di natura giudiziaria, le condizioni minime di accesso e permanenza nelle Camere?».
Chi sceglierà alle primarie del Pd?
«Voterò per Cuperlo, anche se non so se questo possa avvantaggiarlo…».
Può aiutarci a capire le differenze, in termini di contenuti politici, tra lui e Renzi?
«Stiamo parlando dell’elezione del segretario del Pd e non della scelta di un candidato alla presidenza del Consiglio. Fermiamoci quindi alla differenza tra due diversi modelli di partito: quello immaginato da Cuperlo vuole riprendere a integrare i cittadini nella vita politica, è radicato sul territorio e ricostruisce finalmente legami con gli eletti così come un senso di appartenenza a una comunità. Renzi invece persegue un modello di partito prevalentemente elettorale che a mio avviso non corrisponde alle esigenze della società italiana, che ha bisogno di riconoscersi in nuovi legami politici».
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