Pil e cemento: i veri assassini della Sardegna alluvionata
"e la chiamano estate"
Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d’acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l’elenco di piaghe descritte nel Libro dell’Esodo, gli ha dato la definizione di “piena millenaria”. La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d’acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie. I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l’Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e “prevalente” che sta a monte.
È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d’asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di “sviluppo” che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia. Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova? Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente dell’abusivismo: dove un tempo c’erano stagni e dove scorrevano magri torrenti. Le “piene millenarie”, proprio perché hanno memorie lunghissime, ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti. Solo che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola d’arte, senza alveiintombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero dighe prima di cedergli il passo.
Olbia è crescuta in fretta, è un piccolo emblema dell’ideologia dellacrescita libera che ripudia qualsiasi pianificazione. Il Pil veniva prima di tutto, e perciò si doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema idraulico artificiale che si sovrappone a unsistema idraulico naturale. Olbia però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza criterio. L’onda del Pil era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All’acqua della città, incanalata senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l’acqua della montagna, e tutto è stato devastato. Ora la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che snocciolano compunti i milioni stanziati per l’emergenza: Enrico Letta 20 milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev’essere lo stesso Cappellacci che ha guidato un’amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico.
Certo, quei milioni non sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17 (diciassette) “piani di risanamento”. Cioè: prima si lasciava fare, senza permessi, poi si condonava, si “risanava”, senza nemmeno completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero, costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a quel pezzo di territorio. Facile strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi c’erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale sul “rischio alluvione”. La prevenzione non fa notizia, non porta voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d’apertura di “Repubblica”. È solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.
Negli anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello sviluppo e dellacrescita, e al diavolo i geologi. Proprio un geologo, Fausto Pani, sul sito “sardiniapost.it”, in veste di autore del Pai (Piano stralcio per l’assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali, si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «Solo pochi giorni fa i sindaci interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano ancora allo stesso modo».
Infatti il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall’alluvione è Terralba, nell’oristanese. Ho visto in Tv il sindaco di centrosinistra Pietro Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non andavano bene a una parte della gente di Terralba. Lo scorso 15 giugno un comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici che limitano lo sviluppo del territorio». Uno dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese».
Alle magnifiche sorti e progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso asciutto che per un giorno è diventato l’Orinoco. Gli impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli. Parafrasando una vecchia storia, l’ultimo sviluppista è disposto a vendere la corda con la quale verrà impiccato. Adesso la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al Pil. È forse cinico dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel crescere, il Pil dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta del vero benessere. Quel pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una scelta. La scelta non è “costruire oppure no”: è semmai cosa costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.
(Pino Cabras, “L’alluvione sarda e i fantocci impiccati”, da “Megachip” del 20 novembre 2013).
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