Marcinelle, 1956: così morivano gli schiavi
italiani in Belgio.
Scritto il 24/8/13
L’8 agosto del 1956, alle 8.10 del mattino, nella miniera di carbone di Marcinelle, in Belgio, una gabbia parte dal “punto d’invio 975” del pozzo d’estrazione con un vagoncino male agganciato. Ha inizio così la tragedia che vedrà la morte di 262 minatori su 274 presenti, 136 dei quali italiani, 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 5 francesi, 3 ungheresi, un inglese, un olandese, un russo e un ucraino. Soltanto 13 superstiti vengono tirati fuori il primo giorno.
L’interminabile attesa dei familiari continua in ogni modo fino al 22 agosto, quando i soccorritori pronunciano le fatidiche parole “Tutti cadaveri”. La tragedia di Marcinelle, di cui ricorre il 57mo anniversario, rievoca anni bui della storia. Dopo la Liberazione, la necessità di una ricostruzione industriale porta il governo belga a lanciare la “battaglia del carbone”. Le autorità non vorrebbero manodopera straniera, ma ben presto si comprende che l’obiettivo non potrà mai essere raggiunto contando unicamente sulla manodopera belga.
Si rende così obbligatorio il ricorso all’immigrazione massiccia degli stranieri, alle loro braccia; il Belgio si rivolge all’Italia, che esce esangue dalla II guerra mondiale dopo 20 anni di fascismo. Una immigrazione sancita da un protocollo, il protocollo di intesa italo-belga del 23 giugno 1946, prevede l’invio di 50.000 lavoratori italiani in cambio della fornitura annuale di un quantitativo di carbone, a prezzo preferenziale, compreso tra due e tre milioni di tonnellate. Per convincere gli uomini a lavorare nelle miniere belghe, si affiggono in tutta Italia manifesti che presentano unicamente gli aspetti allettanti di questolavoro (salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato). In realtà, le condizioni di vita e di lavoro sono veramente dure. Sembra una storia così attuale!
All’arrivo a Bruxelles, comincia lo smistamento verso le differenti miniere; i lavoratori vengono accompagnati nei loro “alloggi”, le famose “cantines” – baracche, insomma, o “hangar”, gelidi d’inverno e cocenti d’estate, in realtà veri e propri campi di concentramento dove pochi anni prima erano stati sistemati i prigionieri di guerra. La mancanza di alloggi convenienti, previsti peraltro dall’accordo italo-belga, impedisce alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia.
Trovare un alloggio in affitto è infatti quasi impossibile, all’epoca. Senza contare la discriminazione. Spesso sulle porte delle case da affittare, i proprietari scrivono a chiare lettere “ni animaux, ni etranger” (né animali, né stranieri). Un’integrazione difficile, dunque, a cui si sommano le condizioni di lavoro particolarmente dure e insalubri e le scarse misure di igiene e sicurezza.
Tra il 1946 e il 1955, quasi 500 operai italiani trovano così la morte nelle miniere belghe, senza contare il lento flagello delle malattie d’origine professionale. La più pericolosa di queste è la silicosi, causata dalle polveri della miniera che, depositandosi nei polmoni, crea insufficienze respiratorie.
(Diritti Distorti, “Marcinelle. 8 agosto 1956, morti 136 minatori italiani”, da “Contropiano” dell’8 agosto 2013).
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