La governance nelle città. I territori tra poteri e conflitti
Negli ultimi tre decenni, anni in cui si è imposta nella società l’egemonia neoliberale, il concetto di governance ha descritto l’emergere di pratiche di governo orizzontali e “a rete” che favoriscono la nascita di nuovi soggetti con facoltà decisionale autonoma accanto ai tradizionali organismi legittimati democraticamente, fondati sul principio di sovranità esclusiva di stampo verticale che prende corpo nella rappresentanza politica dei cittadini. “In generale, con governance si indicano le diverse forme di accordi e coordinamento che si innescano fra i soggetti pubblici e privati, caratterizzati, entrambi, da obiettivi e interessi specifici, talvolta in contrapposizione, all’interno di un sistema territoriale per definire e portare a termine politiche di sviluppo di vario genere”. Ciò significa che i soggetti privati si fanno carico di decisioni a interesse pubblico, collettivo, con interventi in collaborazione con enti pubblici e/o in sostituzione di essi. Stiamo parlando di settori “strategici” riguardanti la vita delle popolazioni, come la salute, l’ambiente, la formazione, l’occupazione, le cui ricadute difficilmente vengono preventivate giacché l’autonomia degli accordi territoriali inficia la possibilità di un agire comune in cui far convergere esperienze e raffronti, proposte e pianificazioni allargate. Questi processi di concertazione nei territori, attuati tramite patti, progetti, contratti di programma ecc., coinvolgono diversi attori sociali locali, ma tra questi un ruolo principale viene svolto dalle imprese private e dai soggetti istituzionali. Infatti, nonostante l’ideologia dei piani di zona presenti un campo d’azione a cui hanno accesso tutti i soggetti sociali al fine di apportare un generale miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, di fatto si innesca un potente meccanismo di esclusione sociale, dovuto all’irrompere delle logiche di mercato all’insegna della libera concorrenza, in quelli che finora erano settori sganciati dalla logica del profitto. Dinanzi a tale sistema i soggetti fragili sono costretti ad accorparsi ai soggetti forti, capaci di regimi concorrenziali ad alto standard, ovvero, in primis, le imprese private e, in seconda battuta, le istituzioni pubbliche che da qualche anno, ma con molta fatica, hanno avviato processi di adeguamento ai criteri di efficienza globali. I meccanismi di governance rappresentano essenzialmente l’applicazione pratica, per quanto ‘concertata’ o ‘partecipata’, del nuovo modo di rapportarsi tra imprese private ed enti amministrativi pubblici: “La politica liberale contemporanea è caratterizzata dall’emergere di dispositivi di esercizio di razionalità governamentale differenti che premono per il depotenziamento dei poteri statali e degli istituti rappresentativi a favore della disseminazione dei fuochi decisionali e della costruzione di reti diffuse dei poteri. Le teorie di governance sono il prodotto di una razionalizzazione politica ed economica che a fronte della condizione di difficoltà delle democrazie liberali, si dota di tecniche e di dispositivi di stabilizzazione e di conservazione politica centrati sul mercato”. La novità peculiare della governance nel rapporto stato-mercato sta, dunque, non solo nel carattere dislocato rispetto ai luoghi decisionali statuali classici o nel rapporto orizzontale dei nodi partecipativi, ma anche nel ruolo preminente che le imprese private occupano, di fatto, in tali indirizzi politici nei territori. Dopo la crisi del fordismo industriale, dopo l’emergere di una crescente terziarizzazione e finanziarizzazione dell’economia, dopo il ritirarsi del welfare state, l’impresa si avvicina ai luoghi decisionali nei territori e nelle città, richiedendo così quote di sovranità sottratte alla democrazia rappresentativa. In questa maniera assistiamo ad un mutamento profondo sia della stessa democrazia formale che del concreto modificarsi del tessuto urbano, dello sviluppo delle nostre città, sulla spinta delle trasformazioni del capitalismo post-fordista: “Di fatto la creazione di valore non si fonda - come prima - sullo sfruttamento dell’operaio della fabbrica fordista: il valore viene estratto da ciascuna attività della fabbrica sociale generalizzata”. Sono quindi le strategie ed i dispositivi di valorizzazione, dispiegati sul piano di questa “fabbrica sociale generalizzata”, a richiedere nuovi meccanismi di governance più flessibili ed adatti alla creazione di valore. Ne consegue che questa pianificazione frammentata sul territorio in funzione della valorizzazione produca sia la tanto conclamata “crisi della rappresentanza”, sia, soprattutto, la modificazione sregolata dei territori stessi, delle loro funzioni, delle precedenti priorità, delle programmazione degli interventi sociali ecc. Il sistema di governance si presenta come una tecnica di stabilizzazione sociale che risponde all’esigenza di contenere i conflitti prodotti dai processi di globalizzazione e di mondializzazione attraverso un lavoro di mediazione tra interessi. Il punto è che questa mediazione, condotta seguendo un modello di gestione delle trasformazioni sociali, politiche ed economiche che adotta linguaggi, metodologie e logiche provenienti dall’ambito manageriale (pianificazione strategica, misurazione delle performance, controllo di qualità), porta a diversi esiti critici: a) da un lato, l’approccio tecnico ai conflitti sociali depotenziano la sfera della politica a favore di una policy articolata prevalentemente come problem-solving, regolazione e negoziazione che preserva gli equilibri di mercato; b) dall’altro, invece di creare occasioni per la costruzione di un sistema politico ed economico più solidale ed equo, di ampliamento della partecipazione, di una maggiore efficienza politica ed amministrativa, si produce un sistema politico burocratico e tecnocratico operante secondo procedure di tipo negoziale e neo-corporative.
È evidente che, scavalcando le procedure legislative di tipo rappresentativo grazie a una legittimità politica indiretta e funzionale, l’influenza effettiva della gente attraverso la democrazia formale rappresentativa ha un ruolo marginale. Stiamo qui avanzando l’ipotesi che i sistemi di governance siano concepiti a partire da presupposti inadeguati alla richiesta sociale di partecipazione e al raggiungimento di fini di equità nelle politiche, poiché prevedono forme di concertazione escludenti sia nei metodi che nelle finalità particolari degli attori coinvolti. Se questo è vero, il divario economico e sociale è destinato ad allargarsi e a innescare conflitti nei territori in merito alle scelte attuate e ai problemi non risolti. Infatti, la partecipazione democratica intesa come prassi competitiva comporta l’accettazione delle disuguaglianze nelle risorse di partenza degli attori, disuguaglianze perpetuate e legittimate a cui non si pone rimedio: le procedure democratiche scivolano inesorabilmente verso il mercato, verso cioè un ambito di rischio e mancanza di tutele.
2. Governance e sistemi urbani
Tali processi di governance hanno avuto in questi anni un impatto molto intenso nelle città, dove gli effetti della burocratizzazione, dell’esclusione e della disuguaglianza, legati ai processi economici globali, hanno comportato una profonda trasformazione delle identità locali e dei sistemi urbani, accompagnata da una nuova concezione dello sviluppo urbano e dello spazio pubblico. Risale agli anni ottanta la comparsa del fenomeno del ‘rinnovo urbano’ di molte città europee. Sulla scia dell’esempio di Barcellona, della sua pianificazione strategica di una modificazione urbanistica complessiva, in numerosi centri del vecchio continente il passaggio dalla produzione industriale al nuovo sistema terziario, nodo di una rete globale, ha trasformato gli assi portanti del sistema urbano. Le “città-impresa”, in competizione sul mercato globale in quanto a ricezione di flussi di investimenti, di informazioni, di turismo ecc., cambiano volto urbanistico e cercano una “vocazione” strategica individuabile, nei processi attrattivi del “city marketing”. Nella città si seguono modelli manageriali esaltati dall’ideologia politica neoliberista (di destra come di sinistra): “La nuova dottrina, nata negli anni ottanta nell’ambiente neoconservatore dei paesi anglosassoni ma messa in pratica negli anni novanta dalle amministrazioni democratiche e new-labour, intende affermare una cultura pubblica orientata all’efficienza aziendale. L’amministrazione pubblica dovrà ricomporre il proprio assetto soprattutto sulla base del proprio know-how, più che sulla base delle proprie competenze istituzionali. L’amministrazione pubblica si scopre però inadatta, spesso incapace di sviluppare saperi tecnici adeguati; si rivolge pertanto al settore privato e avvia iniziative per trasferire nel settore pubblico il know-how gestionale che si è accumulato nelle imprese private. Si tratta allora di: 1) privatizzare, esternalizzare e liberalizzare la produzione di beni e servizi pubblici; 2) orientare i bilanci pubblici ai risultati; 3) destrutturare le funzioni e i servizi pubblici mediante la creazione di quasi-mercati; 4) industrializzare i servizi pubblici e orientarli al cliente, che sostituisce il cittadino”. (4) Questo vuol dire che le città-impresa hanno assunto la configurazione di città globali attraversate da scambi e investimenti internazionali, fungendo, così, da siti produttivi strategici per i settori economici di punta. Ciò è richiesto proprio dal processo di globalizzazione che necessita di luoghi centrali dove svolgere concretamente le funzioni della valorizzazione del capitale che consistono nella riconversione sui territori dei flussi economici. Riconversione che però non si traduce in una maggiore produttività dei territori né tanto meno in un razionale ed equo sviluppo che comprenda anche una distribuzione dei capitali, ma è la parte di un flusso che avvantaggia soprattutto i suoi punti di partenza. All’interno delle città globali si afferma una nuova geografia della centralità e della marginalità, dove da un lato, i quartieri centrali delle città globali e i centri d’affari metropolitani (che ospitano poli di eccellenza, multiservice ecc.) ricevono massicci investimenti in immobili e telecomunicazioni, mentre dall’altro le aree urbane a basso reddito sono a corto di risorse. “Queste tendenze sono sempre più evidenti, sia pure a diversi livelli di intensità, in un numero crescente di grandi città del mondo sviluppato e in quelle di alcuni paesi invia di sviluppo che sono stati integrati nell’economia globale.” (5)
3. Le città “a progetto” e l’instabilità della governance
Nel quadro finora delineato appare chiaro che gli elementi di stabilità che strutturavano i sistemi urbani (pensiamo, ad esempio, alla progettazione dei piani regolatori come sintesi di un’operazione che coinvolgeva le amministrazioni locali a impegni duraturi nei confronti dei territori, nonché alla presenza di aziende radicate che impegnavano lavoratori locali e al ruolo che occupavano gli enti nell’amministrazione), ora vacillano. La precarietà viene però presentata come una scelta che avanza verso il nuovo, diretta a raggiungere stili di vita più elastici che promettono benessere e felicità a tutti, piuttosto che come un fattore subìto e non ancora digerito. La nuova concezione della città globale, invece, che è flessibile anche nei confini, nella morfologia geografica, sociale, economica e culturale, ovvero nell’identità, essendo il frutto di un processo di modernizzazione “liquida”, si adatta come una maschera alle frontiere del mercato. La conseguenza sarà visibile nell’ideologia delle “varianti”, trasformazioni urbane imprevedibili per natura, in quanto legate agli accordi del momento tra poteri locali nella duplice versione di privato e pubblico, sempre meno distinguibili tra loro. Di fatto, il meccanismo, ormai dominante, di compravendita di servizi sociali e di interscambio con appalti privati, regolato legalmente, rende confuso ogni approccio interpretativo tanto è fitta la trama dei rapporti di governance. Non è chiaro, infatti, riconoscere il promotore di un intervento né tanto meno il destinatario e le stesse prassi messe in campo nell’attuazione dei progetti locali seguono metodologie affatto neutre e facilmente riconducibili alle aspettative dei soggetti operativi. Gli obiettivi dei patti rientrano a loro volta nelle priorità definite a livello comunitario se non globale, scavalcando urgenze o istanze legate ai territori, mentre destabilizzano e costringono a una ricomposizione delle forze che il più delle volte scaricano come zavorre il tessuto sociale marginale. Le scelte strategiche, a carico dei soggetti “capofila”, definiscono periodicamente e senza coerenza le identità locali e i bisogni sociali rispetto ai quali l’iniziativa dei cittadini perde voce: non sarà una raccolta di firme a portare come risultato la costruzione di un giardino pubblico ma un accordo di governance tra enti pubblici e privati. In esso, certo, si può inserire una qualche forma di rappresentanza “allargata” ma difficilmente sarà portatrice di proposte che esulano dal “pacchetto” predefinito dai patti locali, anche perché le compagini nascono dalla volontà di più soggetti di unirsi per affinità e obiettivi, omologazione che la rappresentanza per elezione avrebbe in parte potuto contenere. Ciò non toglie che sia possibile un beneficio per la comunità con l’aumento dei servizi ma è problematica una prassi che costringe a un ripensamento delle categorie tradizionali di sovranità e rappresentanza perché aleatoria, sfuggente e, soprattutto, “a progetto” cioè legata a finalità e obiettivi a breve termine e a una concezione del tempo frammentata che spezza il tempo e la storia, infondendo un senso di insicurezza generalizzato. Il nuovo volto delle città globali è quello dell’essere “a progetto”, di adattarsi alle richieste che il mercato, nel suo incessante evolversi, fa a livello planetario e ai cittadini non resta che inseguire i mutamenti registrati dalle agenzie interinali. Questi processi di accumulazione, valorizzazione, che la governance media, modificano i territori con nuove centralità e marginalità, con la creazione di barriere e di limiti alla circolazione ed alla socializzazione, la fissazione di quartieri ghetto ecc. in cui si esercita un limite alla possibile eccedenza di spostamenti, cooperazione, produzione, perché sono i flussi a comandare la pianificazione dello spazio e non viceversa. In questo flusso che parte dal mercato sono trascinati sempre più istituzioni ed enti che diventano nodi di una grande rete predisposta al controllo tramite (per dirne una) periodiche verifiche, non tanto sulla correttezza delle procedure adottate o sul valore delle proprie iniziative ma sulla produttività. Ma le verifiche non sono mezzi neutrali e sembrano sempre più assomigliare ad operazioni di design che al tempo stesso direzionano e danno forma agli enti, costretti a conformarsi alle direttive nel momento in cui si aggiornano per sopravvivere nel regime di concorrenza. I mutamenti delle politiche di governance qui esaminati, rendono urgente un’analisi scientifica dei processi di accumulazione, di speculazione e di rendita urbana che investono le nostre città. Se i flussi di valorizzazione conformano ormai le metropoli globali come le città medie in una trasformazione diseguale e violenta dei territori, se gli investimenti in processi produttivi immateriali e finanziari producono settori di lavoro sempre più precari e virtuali, ai quali non sopperisce certo l’inesistente ripresa di un’industrializzazione segnata dal modello dei “distretti industriali”, allora è possibile esaminare, attraverso l’inchiesta, lo sviluppo dell’accumularsi di questi capitali in poche mani ed il conseguente impoverimento di larghe fasce della popolazione emarginate nella nuova struttura produttiva. Una ricerca ed un’inchiesta dal basso non potrà dunque non indagare questo rapporto tra accumulazione, governance, impoverimento e riduzione del reddito, date anche le pressioni ed i conflitti sociali che emergono nelle metropoli.
Luigi Narni Mancinelli - Claudia Landolfi
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