Il destino multipolare dell’Unione Europea
11 - 09 - 2013Maurizio Sgroi
Quelli che si aspettavano che davvero i paesi dell’Europa finissero col convergere verso un denominatore comune di valori (economici almeno) dovrebbero spendere un po’ del proprio tempo per leggere un paper della Bundesbank uscito a fine agosto: “The evolution of economic convergence in the European Union”.
Quelli che si aspettavano che bastasse fissare soglie macroeconomiche comuni, innanzitutto fiscali, per diventare una comunità, dovrebbero perdere un altro po’ di tempo per studiare le statistiche della Bri che monitorano l’andamento dei prestiti bancari fra i paesi del mondo, e dell’Europa in particolare.
Quelli che si aspettavano che la disciplina economica bastasse a cancellare l’eredità della storia dovrebbero mettere insieme queste letture e scoprirebbero un’evidenza chiara a tutti ma celata dalle cronache: l’Europa unita è una chimera.
L’Europa reale è un’entità multipolare dove la storia pesa assai più della bilancia dei pagamenti. La mitica convergenza non si è mai verificata e anzi rimangono profonde differenze negli standard economici dei 27 paesi dell’Ue (ormai 28), come anche fra i 17 dell’eurozona.
Gli studiosi della Buba non lasciano molte speranze in proposito: “Non abbiamo trovato complessivamente convergenza dei redditi reali pro capite nell’Ue. Questo risultato è evidente in tutti gli orizzonti considerati”. Per la cronaca, lo studio fa riferimento a dati raccolti sui 27 paesi dell’Ue dal 1970 al 2010.
Ma prima di approfondire lo studio della Buba, vale la pena fare un passo indietro e dare uno sguardo d’insieme.
Nell’Ue a 27 i paesi più robusti sono profondamente interrelati con quelli deboli, che funzionano come mercati di sbocco, riserve di manodopera a basso costo e fonte di redditi finanziari. Questi legami vengono tessuti sotto forma di investimenti diretti o di portafoglio e il criterio principale che guida le scelte degli investimenti è la prossimità geografica, che quindi vuol dire anche storica e culturale.
I dati lo mostrano con chiarezza. L’Austria, ad esempio, è profondamente interrelata, tramite le sue banche, nei confronti dei paesi dei Balcani e dell’Ungheria. La Svezia, un altro pezzo forte dei paesi ricchi, lo è altrettanto nei confronti degli altri paesi dell’area nordica e dei paesi Baltici. La Germania tesse (molto meno che in passato) rapporti simili con i paesi del Sud Europa, lato investimenti di portafoglio (come fanno anche Francia e Belgio), e sempre più con quelli dell’area del centro-est europeo, verso i quali indirizza corposi flussi di investimenti diretti, tanto da farli somigliare ai vecchi paesi-satelliti.
La notizia, come dicono i giornalisti, è che tanta generosità da parte dei paesi ricchi, seppure ha aumentato il livello di vita in quelli poveri, non è servita a realizzare nessuna convergenza (a parte quella sui debiti).
Il sogno europeo è rimasto nel cassetto.
“Abbiamo scoperto – scrivono gli economisti della Buba – gruppi di paesi che convergono verso differenti livelli di ricchezza nel lungo periodo. I link regionali – osservano – sembrano giocare un ruolo fondamentale nella determinazione dei processi di convergenza dei gruppi (clubs)”.
La famosa eredità della storia.
Non finisce qui: “I paesi dell’eurozona appartengono a distinti sottogruppi e il clustering non è necessariamente collegato alla loro appartenenza all’Unione monetaria”. In pratica significa che i paesi dell’eurozona sarebbero comunque appartenuti al club cui appartengono adesso sia che avessero aderito o no all’euro.
Ma allora tutta questa fatica a cosa è servita?
Altre due conclusioni sono degne di nota: “C’è una chiara separazione fra i paesi del Centro-Est europeo e quelli storici dell’Ue”. Malgrado gli incrementi di ricchezza raggiunta, i primi non sono stati in grado di eliminare le differenze di reddito reale pro capite con i secondi”.
E poi: “Abbiamo osservato una divisione fra le economie del Sud-Est e quelle del Nord-Ovest a partire dalla metà degli anni ’90″.
Quindi: nessuna convergenza, ma anzi graduale divergenza.
Qualche numero illustrerà meglio di mille parole cosa (non) è successo nell’Europa Unita.
L’occasione di farci due conti ce la dà una tabella contenuta nello studio dove sono indicati i Pil pro capite dei singoli paesi negli anni 1970, 1995, 2010. I prezzi sono a valori costanti del 2005 per il primo e l’ultimo periodo, ed espressi in dollari. E’ un dato grezzo, visto che il Pil dice solo un piccolo pezzo della storia di un paese, ma serve comunque a delineare una tendenza.
Nel 1970 il Lussemburgo era il primo della classifica e tale è rimasto 40 anni dopo. Il suo Pil procapite si è moltiplicato per 3,2. L’Austria, che era al 6 posto nel 1970, nel 2010 era seconda (moltiplicato per 2,4 volte), l’Olanda, che era seconda ora è al terzo posto (fattore 1,95), la Svezia, che era terza, ora sta al quarto (fattore 1,84), il Belgio, che era ottavo, ora è al quinto posto (fattore 2,26), L’Irlanda, che era al 12°posto ora è al sesto (fattore 3,18), il Regno Unito, all’11° posto, ora è al settimo (fattore 2,48), la Germania, che era al 5°, ora è ottava (fattore 2,06), la Danimarca, che era quarta, ora è nona (fattore 1,9), la Finlandia che era decima è rimasta decima (fattore 2,38), la Francia, che era settima ora è 11° (fattore 1,96), l’Italia, che era nona, ora è 12° (fattore 1,99), Spagna e Grecia si sono scambiate di posto, dal 13° al 12° la Spagna e viceversa la Grecia.
Risulta chiaro che i paesi del sud Europa sono rimasti dov’erano, Portogallo compreso. I paesi del Nord, salvo qualche rimescolamento, pure. Fa eccezione solo l’Irlanda, ma al prezzo che conosciamo.
I paesi del blocco centro orientale non fanno eccezione. Malgrado i fattori di moltiplicazione del Pil siano più alti di quelli “storici” il basso livello di partenza li pone, per Pil procapite, praticamente al livello dei paesi storici nel 1970.
In pratica sono indietro di 40 anni.
Altro che convergenza
“I nostri risultati – conclude il paper – mostrano che un calo di attenzione sull’attività di riforme orientate alla crescita nei paesi europei mette in serio pericolo la possibilità di una convergenza nel futuro prossimo”. Quindi le riforme le dobbiamo comunque fare.
“I policymaker dovrebbero considerare le persistenti differenze documentate in questo paper in vista di ulteriori allargamenti dell’Unione europea”.
Chi sogna un’Europa più grande dovrebbe farci un pensierino.
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