Quote di assistenza contrattuale, quella tassa occulta pagata ai sindacati
Le associazioni di categoria ricavano questi introiti dalle buste paga dei lavoratori, così come i "gettoni di presenza" presso gli enti bilaterali. Al ministero del Lavoro li definiscono una "royalty" per avere chiuso i contratti, a Cgil, Cisl e Uil servono a fare quadrare i bilanci
Ma cosa sono le “quote di assistenza contrattuale”? La cifra è presente in molti degli oltre 400 contratti stipulati dai sindacati nazionali (l’elenco completo è consultabile sul sito del Cnel) e rappresenta una quota straordinaria che i sindacati e i datori di lavoro prelevano dalle buste paga dei lavoratori per aver concluso il contratto. Un premio per il lavoro fatto. Nell’ultimo Ccnl (contratto nazionale) dei metalmeccanici, ad esempio, Fim e Uilm hanno richiesto un contributo “una tantum di 30 euro per ogni lavoratore non iscritto al sindacato da trattenere sulla retribuzione”. Sul contratto, poi, era indicato il conto corrente bancario (presso il Credito cooperativo di Roma) su cui effettuare il versamento. Parlando di circa un milione di lavoratori è facile fare i conti. Per quanto riguarda i contratti del Commercio e del Terziario, la sola Filcams ha iscritto in bilancio 2,15 milioni che vanno moltiplicati per tre (cioè anche per Cisl e Uil) e poi per due (la parte datoriale). Il totale, quindi, è di circa 15 milioni di euro che rimpolpa bilanci spesso piuttosto magri. Un fiume di denaro assicurato dalla pratica del “silenzio-assenso”, per cui sono i lavoratori a dover mettere per iscritto il proprio rifiuto a versare la “tassa occulta”. Ma sono in pochi a saperlo.
Quella quota, poi, spesso è mescolata all’altra contribuzione poco nota, quella relativa agli Enti bilaterali. Questi organismi, governati alla pari da sindacati e imprese, sono stati istituiti nel 2003 dalla legge 30 e vengono regolamentati dai contratti nazionali e/o territoriali. Servono a offrire prestazioni e servizi ai lavoratori sul piano della formazione professionale o del sostegno al reddito. Solo nel settore del Commercio e dei Servizi, la Filcams ne ha conteggiati circa 200 tra i 20 nazionali e i 194 provinciali e regionali. Ma ormai sono presenti in ogni categoria contrattuale e, come spiega al Fatto il segretario generale del ministero del Lavoro, Paolo Pennesi, “svolgono un ruolo di supporto all’attività pubblicistica” ma sono comunque regolati dal diritto privato. Quindi, di fatto, non sono soggetti a particolari controlli “se non quelli relativi alla loro affidabilità basata sul fatto di essere emanazione di sindacati rappresentativi”.
Il problema è che anche questi Enti ricevono un contributo dai lavoratori: generalmente dello 0,3-0,5 per cento che però, in alcuni casi, sale all’1 per cento della retribuzione. Circa 50 euro l’anno a lavoratore per qualche milione di addetti. Una mole di denaro non rendicontato e non sottoposto ad alcun controllo. Uno studio della Filcams del 2011, relativo al proprio comparto, notava che le risorse “a favore dei lavoratori e delle imprese non superano quasi mai il 50 per cento dei contributi incassati dai singoli enti” oppure che, per quanto riguarda i compensi, si possono “raggiungere indennità elevatissime fino a 70 mila euro annui per una presidenza”.
Un particolare Ente bilaterale, come l’Enasarco che gestisce il fondo pensioni per gli Agenti di commercio, spende ogni anno, per retribuire i suoi 18 amministratori (Cda e Collegio sindacale) 1,3 milioni di euro, oltre 72 mila euro a testa. Ma il presidente, Brunetto Boco, percepisce molto di più. E Boco è anche il segretario generale della UilTucs, il sindacato del Commercio, Turismo e Servizi. Lo stesso dottor Pennesi ricorda che il ministero del Lavoro ha già chiarito “che gli accordi in materia di bilateralità impegnano soltanto le parti aderenti”. In questo spirito, dunque, fa notare, anche le quote di assistenza contrattuale, definite alla stregua di “royalties”, dovrebbero poter essere imposte “solo a chi è iscritto” ai sindacati, dei lavoratori o delle aziende.
“In realtà i nostri contributi derivano principalmente dalle tessere”, spiegano sia in Cgil che in Cisl anche se, ammettono, le quote di assistenza sono un modo in cui “soprattutto le categorie più deboli” compensano iscrizioni basate su stipendi bassi (la tessera al sindacato mediamente è l’1 per cento della retribuzione). “Si tratta di un metodo utilizzato dal sindacato anglosassone” spiegano in Cisl dove in molti dichiarano conclusa “l’epoca del sindacalismo gratuito”.
Il fenomeno delle entrate aggiuntive alle iscrizioni è molto più ampio, e opaco, se si considerano i contributi indiretti provenienti dal settore pubblico. La tanto decantata, e assolutamente priva di risultati, “relazione Amato sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato” indicava in 113 milioni di euro il costo dei circa 2mila distacchi sindacali; in 330 milioni il trasferimento dagli Istituti di previdenza ai Patronati nazionali; in 170 milioni le convenzioni dei Caf, i centri di assistenza fiscale che, in più, ricevono dallo Stato 14 euro per ogni singola dichiarazione dei redditi e 26 euro per quelle in forma congiunta. Formalmente questi soldi non vanno a Cgil, Cisl e Uil che però gestiscono quegli istituti con tutti i vantaggi del caso. Come si può vedere, le vie del finanziamento al sindacato sono infinite.
da Il Fatto Quotidiano del 15 gennaio 2014
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