Ue, l’incudine del clima e il martello della competitività low cost
Sono ormai alcuni gli stati europei che hanno abbracciato la contro-argomentazione secondo cui l’Unione europea dovrebbe essere solo a rimorchio e non più la punta degli sforzi per affrontare il cambiamento climatico globale. E ciò in nome della competitività, “minacciata” – sostengono – dai costi di un’imprescindibile attenzione all’ambiente. Riconosco che alcuni dei commenti a questo blog si basano sulla medesima convinzione. Una convinzione a mio giudizio non corretta, ma da valutare senza alcuna presunzione, poiché è sostenuta ufficialmente in sede europea dalla Polonia in veste di capofila ed è appoggiata, anche se solo a mezza bocca, dal nostro Governo, ovviamente disponibile alle pressioni di Confindustria e delle grandi aziende energetiche.
Ma – sostiene Germanwatch, un think tank dei ministeri del governo tedesco – un’abdicazione dell’Europa dalla guida del controllo del clima, deprimerebbe lo sviluppo nel vecchio continente e consegnerebbe un enorme vantaggio economico alla Cina e agli Stati Uniti, che si impadronirebbero della quota di mercato delle tecnologie a bassa emissione, stimata in centinaia di miliardi di dollari l’anno.
Già ora le esportazioni cinesi di apparecchiature solari (35,8 miliardi di dollari) valgono quasi quanto le esportazioni di scarpe (39 miliardi dollari). Il produttore asiatico ha pianificato entro il 2050 il raddoppio della quota, in un mercato dei prodotti energetici a basse emissioni di carbonio stimato attorno ai 500 miliardi dollari annui. Peraltro, Germanwatch giudica un grave errore il blocco da parte di Angela Merkel della legislazione Ue per migliorare l’efficienza dei carburanti, proprio quando gli Stati Uniti, noti per gli sprechi del loro parco macchine, hanno adottato norme per raddoppiare l’efficienza delle automobili nuove. Ma, si sa, la cancelliera si è giustificata dicendo che stava salvando posti di lavoro da “normative troppo severe per il settore di lusso”, com’è il caso della Bmw, il più noto finanziatore bavarese del suo partito.
Alla fine – e questa è la conclusione della ricerca dell’organismo tedesco citato – se il resto del mondo innova per migliorare la qualità dell’aria e tagliare la bolletta energetica e le emissioni, chi temporeggia perde posti di lavoro e vede peggiorare il proprio conto economico. E’ vero che la competitività della Cina è ancora sostenuta da manodopera a basso costo e che l’industria degli Stati Uniti ha un enorme vantaggio dall’energia a basso costo prodotta dal gas di scisto (i prezzi europei del gas sono circa tre volte superiori a quelli degli Stati Uniti e nell’UE i prezzi dell’elettricità sono circa 2,5 volte più alti). Ma i costi dell’intero ciclo di prodotto, non i prezzi di un settore, sono il problema e possono essere affrontati con una trasformazione produttiva e sociale che assicura interventi preventivi a monte, assai meno cari degli interventi riparatori a valle e capaci di offrire comparativamente più occupazione – come nel caso degli edifici ad alta efficienza energetica nel settore delle costruzioni.
E’ in base a queste considerazioni che la Commissione Europea punta ad una riduzione del 50% delle emissioni per il 2050, valutando che già una riduzione del 40% dovrebbe aggiungere circa lo 0,5% al Pil annuo, in particolare perché le bollette di importazione di combustibili fossili si ridurrebbero. Ragionamenti, questi, argomentati con studi approfonditi, verificati su modelli realistici e confrontabili, che tuttavia rimangono estranei a gran parte della discussione sulla politica energetica nazionale, tutta improntata a improvvisazioni e a luoghi comuni che ripetono le ricette del passato. Opinioni molto diffuse, anche perché difese a spada tratta da una cultura energetica che, a partire dai grandi gruppi fino alle municipalizzate, si fa guidare più dalla contabilità a breve, che dal debito accumulato e da risarcire prima o poi nei confronti della natura e della salute. Opinioni che non temono di mettere in contrapposizione le leggi dell’economia a quelle della fisica e della biologia.
Così ci si finisce per illudere che la riduzione delle emissioni non sia dovuta principalmente alla crisi economica, ma a qualche sbaglio di previsione degli scienziati del clima e si continua a sperare che sia meglio scambiare quote di emissioni di CO2 a basso prezzo, che investire in nuove tecnologie alternative. In questo modo si giustifica l’incentivazione e la ricerca verso “i fossili di nuova generazione” – un ossimoro! – come il gas da scisto o il petrolio marino e artico. Lo scenario prospettato dal punto di vista ambientale è quello minimale di indirizzare gli investimenti previsti per il sistema dell’efficienza e delle rinnovabili verso moderni impianti a gas, che emettono sì meno del carbone, del petrolio e delle vecchie centrali, ma compromettono comunque l’obiettivo di mantenere la temperatura del pianeta al di sotto di un aumento di 2°C. E se ci sarà ripresa, farà davvero caldo.
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