spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

martedì 30 aprile 2013


Le privatizzazioni che hanno ucciso la società

Nel libro di Marco Bersani “CatasTroika” (appena uscito per Edizioni Alegre) un bilancio di ciò che le politiche liberiste e le privatizzazioni hanno prodotto negli ultimi quarant'anni, dall'America Latina alla Gran Bretagna, dalla Russia del post socialismo reale all'Europa occidentale. Anticipiamo un brano tratto dal capitolo: “Italia: dal Britannia al Titanic?”.

di Marco Bersani
Che il processo di privatizzazione in Italia abbia comportato una gigantesca ritirata dello Stato da un ruolo diretto nella produzione industriale e, più in generale, del “pubblico” nell’erogazione dei servizi, lo dimostrano alcuni semplici dati: complessivamente le operazioni hanno comportato proventi lordi per 134 miliardi, nonché risorse reperite totali, comprensive dell’indebitamento finanziario trasferito (14 miliardi) per 148 miliardi.

Alle 114 operazioni censite dal Barometro delle privatizzazioni (Bp) per il periodo 1985-2007, individuate escludendo quelle di importo superiore agli 80 milioni, ma considerando anche la dismissione di alcuni immobili (Torri del demanio dell’Eur) e delle società elettriche locali, corrispondono, invece, proventi pari a 152 miliardi. 
In entrambi i casi l’Italia si è posizionata al secondo posto, dopo il Giappone, nella classifica globale per proventi da privatizzazioni. 
Cifre che appaiono di importante dimensione, ma che in realtà, se paragonate con i successivi valori borsistici delle società privatizzate, come confermato dall’analisi della Corte dei Conti (delibera del 19 dicembre 2012), si rivelano una sorta di “saldi di fine stagione”, la stagione dell’intervento dello Stato nell’economia.

Più in generale, le operazioni di privatizzazione nel loro complesso hanno comportato il totale disimpegno dello Stato dai settori bancario, assicurativo, tabacchi e telecomunicazioni, nonché un consistente ridimensionamento delle partecipazioni, anche se non del controllo, nei settori strategici dell’energia (Eni ed Enel) e della difesa (Finmeccanica). 
La conseguenza è stata che, a fronte di un peso del 18% nel 1991, il contributo al Pil delle imprese partecipate dall’amministrazione centrale è divenuta oggi pari al 4,7%.
Una trasformazione strutturale dell’economia di enormi proporzioni, rispetto alla quale occorre capire chi ne abbia tratto benefici e chi invece ne sia stato danneggiato.

Un primo segnale non può che venire da uno sguardo sulle società di consulenza finanziaria – i famosi “contractors” – che hanno accompagnato i processi di privatizzazione, ottenendo compensi, attraverso ruoli plurimi tra le funzioni di advisor, valutatore, intermediario, collocatore e consulente, pari ad oltre 2,2 miliardi: si tratta, fra le altre, di Societè Generale, Rotschild, Credit Suisse First Boston, JP Morgan, Merril Lynch, Lehman Brothers, ovvero del gotha finanziario a livello internazionale.
E infatti, la prima conseguenza evidente del processo di privatizzazione è stata quella di mettere la parola “fine” a qualsiasi possibilità di una finanza pubblica. 
Agli inizi degli anni 90, l’Italia era il Paese europeo nel quale il controllo pubblico delle banche era il più elevato: il 74,5%, a fronte del 61,2% in Germania, e del 36% in Francia. 
Il processo di riforma attuato ha portato all’azzeramento della proprietà pubblica nelle banche italiane, andando così ben oltre Germania e Francia, le quali, pur riducendo il controllo pubblico, hanno tuttavia mantenuto nel sistema bancario una presenza più che significativa, rispettivamente del 52% e 31%. 

La deregolamentazione ha anche prodotto – com’è ovvio nella giungla del mercato – un forte processo di concentrazione, che, attraverso 566 acquisizioni e fusioni per un valore pari al 50% degli asset totali, ha drasticamente modificato il panorama bancario italiano, portando le quote di mercato dei cinque maggiori gruppi bancari dal 34 al 54%. 
Se a tutto ciò si aggiunge la privatizzazione della Cassa Depositi e Prestiti del 2003, con l’ingresso nel capitale sociale delle Fondazioni bancarie (30%), saldamente inserite nel controllo delle banche di riferimento, il quadro è abbastanza chiaro: le privatizzazioni hanno portato all’azzeramento di ogni funzione pubblica in campo economico e finanziario, con effetti pesanti direttamente riscontrabili nell’odierna crisi, che vede le scelte economiche del Paese sottostare, in totale sudditanza, alle dinamiche del sistema finanziario internazionale. 

Uno dei risultati favorevoli, a più riprese sbandierato dai fautori delle privatizzazioni, riguarda i benèfici effetti delle stesse sul debito pubblico del Paese, avendo gli introiti delle dismissioni ridotto il rapporto debito/Pil nel periodo 1992-2004, con un risparmio in conto interessi di circa 38 miliardi. 
Ma si tratta di un’illusione, sia quantitativa che qualitativa: perché, se nell’immediato si sono avute delle entrate, peraltro irrisorie se confrontate all’entità del debito pubblico, nel medio e lungo periodo le privatizzazioni hanno privato lo Stato di importanti entrate di cassa, nonché di assetti industriali che rappresentavano la spina dorsale dell’economia pubblica e del sistema di welfare che in parte si reggeva su di essa.

E se l’obiettivo dichiarato era quello di mettere in atto una liberalizzazione dell’attività economica favorendo la libera concorrenza, il risultato più evidente è stata la consegna a monopoli privati di attività e servizi gestiti precedentemente dal pubblico, comportando una trasformazione delle stesse, da funzione sociale a funzione unicamente finalizzata alla redditività economica. Questo perché l’obiettivo prioritario dei processi di privatizzazione era in realtà quello di dare un forte impulso ai mercati finanziari, come dimostra il fatto che, dal 1992 al 2007, la capitalizzazione del mercato borsistico domestico sia cresciuta di sette volte e il volume degli scambi sia aumentato di ottantacinque volte. Variazioni tali da essere in larga parte attribuibili alla quotazione di imprese privatizzate, la cui abbondante offerta ha favorito una massiccia riallocazione da parte dei piccoli risparmiatori dai tradizionali impieghi in titoli di Stato al mercato azionario. 

Processo, quest’ultimo, tutt’altro che frutto della libera scelta del “consumatore/risparmiatore”, bensì preciso risultato di una strategia perseguita riducendo drasticamente ogni attrattiva dei Buoni Ordinari del Tesoro e dando un definitivo colpo d’ala al mercato borsistico attraverso l’imposizione – governo Amato – di una tassa del 27% sugli interessi dei conti correnti, a fronte del 12,5% applicato ai guadagni da investimenti in Borsa. Questo processo è stato accompagnato e sostenuto dagli investitori esteri, che hanno sottoscritto sia titoli di Stato che titoli azionari delle nuove società privatizzate, divenendo in breve tempo attori chiave del sistema finanziario, fino a diventare, nell’attualità in corso, causa principale della sua odierna crisi verticale.

Contrariamente all’obiettivo più volte sbandierato di voler sviluppare la diffusione di un forte azionariato popolare e di affermare anche in Italia il modello delle public company, le politiche di privatizzazione hanno inoltre comportato processi di forte concentrazione – come del resto già avvenuto in Gran Bretagna – determinando soprattutto un accentramento del controllo, anche in assenza di una concentrazione della proprietà: allora come oggi, diversi gruppi industriali – e sempre più finanziari – controllano le società quotate pur senza possederne neppure lontanamente la maggioranza delle azioni. 
Nei primi dieci gruppi quotati in Borsa, il capitale controllato è pari a quasi tre volte quello posseduto, e questo è reso possibile dal cosiddetto sistema “delle scatole cinesi”: il possesso da parte di una holding del 51% di una società, che a sua volta possiede il 51% di un’altra, la quale possiede il 40% di un’altra ancora, che possiede il 30% di un’ultima società, quella che realmente interessa. Solo per fare un esempio, con questo sistema, Tronchetti Provera ha ottenuto il controllo della Olivetti – e quindi di Telecom e Tim – pur avendo comprato solo il 29% delle azioni della società. Dentro questo modello, aldilà delle favole sulla democrazia economica, si comprende bene quale possa essere il ruolo dei piccoli investitori: mettere i soldi nella società, permettendo agli azionisti maggiori di poterla controllare senza doverla possedere.

Decisamente pesante è stato l’impatto sociale delle privatizzazioni sul versante dell’occupazione e riguardo alle conseguenze per gli utenti. 
Nel mondo del lavoro, le privatizzazioni hanno coinvolto 225.000 lavoratori, dei quali 125.000 nel settore delle telecomunicazioni, 25.000 in quello siderurgico, 24.000 in quello meccanico, 22.000 nell’alimentare e della distribuzione, 14.000 nei trasporti e infrastrutture. 
Nel contempo, i cittadini si sono trovati di fronte ad un generalizzato peggioramento della qualità dei servizi e ad un costante aumento dei prezzi, in particolare nei settori dei servizi bancari, di quelli infrastrutturali (autostrade) e delle utilities (acqua, energia e gas), con tariffe notevolmente più elevate in proporzione a quelle applicate dagli altri paesi europei.
Di fatto le privatizzazioni non hanno fatto altro che consentire il trasferimento di ciò che prima era in mano pubblica – dunque di proprietà dei cittadini attraverso lo Stato – ad alcune poche mani private, spesso di gruppi finanziari che non aspettavano altro che settori monopolistici ad alta redditività per poter ottenere profitti con rischio industriale nullo.
Emblematico da questo punto di vista il caso delle autostrade: un vero e proprio regalo al gruppo Benetton, che ha ottenuto una rendita garantita con un rischio imprenditoriale nullo; ha potuto così permettersi di attuare investimenti minimi e contare su tariffe più alte della stessa inflazione, mentre il contribuente ha continuato a farsi carico delle spese per la rete in aree meno ricche e più a rischio (autostrada Salerno - Reggio Calabria e grande viabilità interregionale).

Da un punto di vista strategico-economico, le privatizzazioni hanno prodotto anche il nefasto risultato di segnare per il nostro Paese l’ultimo passo del processo generale di deindustrializzazione avviato un trentennio prima, completandolo con uno specifico processo di destatalizzazione.
Con lo slogan “privato è bello, il pubblico non funziona”, si sono messi nelle mani di alcuni privati, importanti settori strategici come quello bancario ed assicurativo, delle telecomunicazioni, siderurgico ed alimentare, continuando ad affermare come il processo di privatizzazione abbia riguardato primariamente l’industria pubblica in difficoltà, quando tutti i dati economici dimostrano il contrario: il 64,8% delle aziende privatizzate apparteneva ai settori bancario assicurativo e delle telecomunicazioni, finanziariamente remunerativi già sotto la gestione pubblica.

Ma i dati sono nulla a fronte del fondamentalismo ideologico, che ha attraversato e permeato tutte le culture politiche ed amministrative. 
Ed è stata soprattutto la sinistra, tesa a far dimenticare la colpa di aver voluto in passato cambiare il mondo e bisognosa di farsi accreditare come affidabile dai mercati finanziari, ad interiorizzare le privatizzazioni come mito riformista e modernizzatore, e ad offrire in pasto ai gestori della finanza attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa.
Nonostante i disastrosi risultati a livello economico, occupazionale e sociale, ormai da diversi anni è in atto addirittura un tentativo di radicalizzare le politiche di privatizzazione, coinvolgendovi altri importanti settori di rilievo sociale, come previdenza, sanità, istruzione, poste, trasporti e servizi pubblici locali.

Questa volta senza bisogno di salire a bordo di un fastoso quanto pittoresco panfilo reale, bensì occupando le grigie stanze del Ministero dell’Economia: è lì che, a fine settembre 2011, l’allora ministro Tremonti ha chiamato a raccolta i grandi investitori italiani ed internazionali, il gotha del sistema bancario e delle investment banks globali per sottoporre loro una sorta di “Britannia 2”, ovvero un altro mastodontico processo di dismissione del patrimonio pubblico del Paese, questa volta totalmente incentrato sul patrimonio immobiliare demaniale e comunale e sulle utilities locali. 
Piano ripreso con vigore dal successivo governo “tecnico” guidato da Mario Monti con l’obiettivo, naturalmente, di ridurre il debito pubblico e promuovere la crescita del Paese. 
La stessa strategia seguita dai primi violini dell’orchestra, che continuarono a suonare mentre il Titanic andava inesorabilmente a sbattere contro l’iceberg.

(30 aprile 2013)


L’austerity e la dittatura dell’1%

di Paul Krugman, da Repubblica, 27 aprile 2013


È raro che i dibattiti economici si concludano con un ko tecnico. Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori dell’austerità si avvicina molto a un simile esito.
Quanto meno a livello ideologico. La posizione pro-austerity è ormai implosa; non solo le sue previsioni si sono dimostrate del tutto fallaci, ma gli studi accademici invocati a suo sostegno si sono rivelati infarciti di errori e omissioni, nonché basati su statistiche di dubbia attendibilità.

Due grandi interrogativi, tuttavia, persistono. Il primo: come ha potuto diventare così influente la dottrina dell’austerity? E il secondo: cambierà la policy, adesso che le rivendicazioni fondamentali dei sostenitori dell’austerità sono diventate oggetto di battute nei programmi satirici della terza serata?

Riguardo alla prima domanda: l’affermazione dei fautori dell’austerità all’interno di cerchie influenti dovrebbe infastidire chiunque ami credere che la policy si debba basare sull’evidenza dei fatti, o essere da questi fortemente influenzata.
Dopotutto i due principali studi che forniscono all’austerity la sua presunta giustificazione intellettuale — quelli di Alberto Alesina e Silvia Ardagna sull’“austerità espansiva”, e di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sulla fatidica “soglia” del novanta percento del rapporto debito/Pil — sono state ferocemente criticati già all’indomani della loro pubblicazione.

Gli studi, inoltre, non hanno retto a un attento scrutinio. Verso la fine del 2010 il Fondo monetario internazionale aveva rivisto Alesina-Ardagna ribaltandone le conclusioni, mentre molti economisti hanno sollevato interrogativi fondamentali sulla tesi di Reinhart-Rogoff ben prima di venire a sapere del famoso errore nella formula di Excel. Intanto, gli eventi nel mondo reale — la stagnazione in Irlanda (l’originario modello dell’austerity) e il calo dei tassi di interesse negli Stati Uniti, che avrebbero dovuto trovarsi di fronte a una crisi fiscale imminente — hanno rapidamente svuotato di significato le previsioni del fronte pro-austerity.

E tuttavia, la teoria a favore dell’austerità ha mantenuto, e persino rafforzato, la propria presa sull’élite. Perché? La risposta è sicuramente da ricercare in parte nel diffuso desiderio di voler interpretare l’economia alla stregua di un racconto morale, trasformandola in una parabola sugli eccessi e le loro conseguenze. Abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, narra il racconto, e adesso ne paghiamo l’inevitabile prezzo. Gli economisti possono spiegare ad nauseam che tale interpretazione è errata, e che se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e che questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto. Tutto inutile: molti nutrono la viscerale convinzione che abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci attraverso la sofferenza. Né le tesi economiche né la constatazione che oggi a soffrire non sono certo gli stessi che negli anni della bolla hanno “peccato” bastano a convincerli che le cose stanno diversamente.

Ma non si tratta di opporre semplicemente la logica all’emotività. L’influenza della dottrina dell’austerity non può essere compresa senza parlare anche di classi sociali e di diseguaglianza.
Dopotutto, cosa chiede la gente a una policy economica? Come dimostrato da un recente studio condotto dagli scienziati politici Benjamin Page, Larry Bartels e Jason Seawright, la risposta cambia a seconda degli interpellati. La ricerca mette a confronto le aspettative nutrite riguardo alla policy dagli americani medi e da quelli molto ricchi — e i risultati sono illuminanti.

Mentre l’americano medio è per certi versi preoccupato dai deficit di budget (cosa che non sorprende, considerato il costante incalzare dei racconti allarmistici diffusi dalla stampa), i ricchi, con un ampio margine, considerano il deficit come il principale problema dei nostri giorni. In che modo dovremmo ridurre il deficit nazionale? I ricchi preferiscono ricorrere al taglio delle spese federali sulla sanità e la previdenza — ovvero sui “programmi assistenziali” — mentre il grande pubblico vorrebbe che la spesa in quei settori fosse incrementata.

Avete capito: il programma dell’austerity rispecchia da vicino, la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare.
Gli interessi dei ricchi sono forse di fatto agevolati da una depressione prolungata? Ne dubito, dal momento che solitamente un’economia prospera è un bene per tutti. Ciò che invece è vero, è che da quando abbiamo optato per l’austerità i lavoratori vivono tempi cupi, ma i ricchi non se la passano così male, avendo tratto vantaggio dall’incremento dei profitti e dagli aumenti della Borsa a dispetto del deteriorare dei dati sulla disoccupazione. L’un per cento della popolazione non auspica forse un’economia debole, ma se la passa sufficientemente bene da rimanere arroccato sui propri pregiudizi.

Tutto ciò suscita una domanda: quale differenza produrrà di fatto il crollo intellettuale della posizione pro-austerità? Sino a quando ci atterremo a una politica dell’un per cento, voluta dall’un per cento a vantaggio dell’un per cento, forse assisteremo solo a nuove giustificazioni delle solite, vecchie policy.
Spero di no; mi piacerebbe poter credere che le idee e l’evidenza dei fatti contino, almeno in parte. Cosa farò altrimenti della mia vita? Immagino però che ci toccherà vedere sino a dove ci si può spingere pur di dare una giustificazione al cinismo.

(28 aprile 2013)


Fiat, utili al lumicino. Non bastano neanche per ricapitalizzare il Corriere

Il Lingotto chiude il trimestre con 31 milioni di profitti e i debiti volano a 10,4 miliardi (+800 milioni). Marchionne va avanti su Chrysler: "L'ultima volta che ho controllato i soldi c'erano"

Fiat, utili al lumicino. Non bastano neanche per ricapitalizzare il Corriere

“Un trimestre non spettacolare. Onestamente, speravamo in qualcosa di meglio”. Questo il commento a caldo dell’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, sui conti del gruppo auto dei primi tre mesi dell’anno. Che hanno registrato un crollo degli utili a 31 milioni di euro. Cioè 231 milioni in meno del 2012 e quasi 20 in meno della cinquantina di milioni che il Lingotto è pronto a investire nell’aumento di capitale del Corriere della Sera di cui potrebbe tornare a essere il primo azionista.
In calo anche il fatturato che in un anno è diminuito di 464 milioni a 19,8 miliardi, mentre i margini sono scesi da 1,86 a 1,65 miliardi e il debito netto in soli tre mesi è lievitato di oltre 800 milioni a quota 10,412 miliardi di euro, “per effetto dell’assorbimento stagionale per Fiat esclusa Chrysler, parzialmente compensato dal flusso positivo di Chrysler”, secondo quanto dichiarato dal Lingotto nella nota che ha annunciato i conti. 
Sui margini, invece, ha pesato il minor risultato della gestione ordinaria in Nord e Sud America,aree che “hanno riportato rispettivamente un calo dell’Ebit del 36% a 400 milioni e del 46% a 127 milioni (che include 59 milioni di euro di oneri atipici per gli effetti della svalutazione nel febbraio 2013 del bolivar fuerte Venezuelano nei confronti del dollaro Usa)”. Salgono, invece, i ricavi dei marchi di lusso e sportivi sono aumentati del 4% a 700 milioni, trainati da Ferrari.  
”L’ultima volta che ho controllato il conto c’erano i soldi”, ha detto in ogni caso Marchionne riferendosi alla fusione tra Fiat e Chrysler per ribadire che Torino ha abbastanza liquidità per acquistare la casa di Detroit. Nonostante il contenzioso con i sindacati americani sul prezzo della loro quota nella società in corso presso il tribunale del Delaware, dove il giudice federale propende al momento per la posizione del fondo dei metalmeccanici Usa che chiedono quasi tre volte tanto quanto la Fiat è disposta a pagare.  Sul tema Marchionne ha risposto che il giudice era molto preparato e che i legali Fiat hanno presentato i loro punti. Il dialogo con il Veba va avanti: i contatti sono regolari ma “sarebbe prematuro da parte mia suggerire” che un accordo è vicino, ha detto.

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EURO CRISI: dopo Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia, Cipro (Slovenia, Malta) chi sara’ il prossimo?

Abbiamo provato a spiegare la Crisi dei Paesi Euro e le sue cause in vari articoli, e qui trovate la sintesi del percorso della stessa passo dopo passo Capire la Crisi dell’Europa in 9 slides (per Super-Dummies)
 D’altronde, anche l’europeista piu’ sfegatato ed ideologico, non puo’ non porsi la domanda: “perche’ da 4 anni la crisi colpisce uno dopo l’altro i paesi periferici Europei, essenzialmente quelli che adottano come valuta l’EURO, mentre nel resto del mondo non si osserva niente di simile?”
Guardate con attenzione il seguente grafico: come si vede dall’introduzione dell’EURO fino al 2011, i flussi di caitale in uscita da Germania e Olanda sono stati speculari a quelli dei paesi periferici. Lo squilibrio e’ diretta conseguenza dello squilibrio della Bilancia dei Pagamenti, a sua volta conseguente dal fatto che i paesi del cuore dell’Europa hanno de facto svalutato. Da questa regola, NESSUNA nazione dell’area Euro sta sfuggendo: chi ha accomulato grossi flussi di capitali tedeschi e nord europei in ingresso (ed ha avuto grossi passivi nella bilancia dei pagamenti) prima o poi va in crisi, e conosce austerita’, recessione e crisi. Nessuna eccezione: Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia, Cipro  e presto Slovenia e poi Malta.
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Se guardate il grafico, vedrete che a partire dal 2010 le 2 curve non sono piu’ perfettamente speculari: in sintesi la Germania (ed altri paesi centro-europei) hanno iniziato ad indirizzare i capitali in eccesso verso qualcun altro. In parallelo le varie crisi nei periferici hanno fatto collassare l’economia, e quindi i consumi ed investimenti, e quindi l’import: in sintesi le bilancie dei pagamenti ed i flussi di pagamento si stanno riequilibrando in queste nazioni. Ovviamente i “periferici” non sono al riparo dalle crisi (lo saranno fintanto che la Germania e le nazioni satelliti ad essa non avranno ritirato tutti gli ingenti capitali prestati negli anni precedenti).
Ma dal 2010-2011 dove vanno i capitali tedeschi, olandesi e delle nazioni centro-europee?
Qui vi do’ un indizio….
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 Dopo le crisi a tappeto dei periferici (che continueranno…. certo che continueranno… finche l’ultimo EURO di provenienza Tedesca non sara’ rientrato in patria) chi vera’ coinvolto?
Sopra 3 indizi: FRANCIA, BELGIO E REGNO UNITO.
Per informazione, i flussi di capitale sono inversamente proporzionali al saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti.
Il Regno Unito non ha particolari problemi: al momento giusto svalutera’ pesanetemente e la cosa e’ semplicemente inevitabile, anche se non necessariamente immediata.
In Francia (e Belgio) invece rivedremo esattamente lo stesso film visto in Grecia, Irlanda, Spagna, Italia, Cipro, Portogallo e che vedremo presto in Slovenia e Malta. Quando? Non e’ certamente questione di settimane, ma non e’ neanche questione di lustri.
E’ ovvio che se la Germania si comportera’ con la Francia nello stesso modo in cui s’e’ comportatata con Grecia, Irlanda, Spagna, Italia, Cipro, Portogallo, saltera’ l’EURO. Con queste nazioni la Germania da un lato ha fatto rientrare (o comunque non ha impedito il rientro) di ingenti capitali in patria, dall’altro ha preteso austerity e recessione ed impoverimento in queste nazioni.
Ma potra’ fare cosi’ con la Francia?


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Tornare alla Lira? Giusto ma…

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Con questo articolo sono consapevole di attirarmi molte critiche, però mi sento in dovere di scriverlo. Premettendo che sicuramente l’avvento dell’Euro nei paesi periferici e mediterranei è stato un fattore negativo per le economie di questi paesi e l’articolo “Capire la Crisi dell’Europa in 9 slides” lo spiega egregiamente, vorrei proporre ai lettori una riflessione riguardante una conseguenza dannosa derivante dall’uscita dall’Euro. Senza entrare nel merito di un discorso puramente economico, la mia è più una riflessione di carattere politico. Possiamo appurare con certezza che l’Euro ha portato una serie di conseguenze negative nei paesi periferici, mentre ha nettamente avvantaggiato la Germania. A questo riguardo bisogna ricordarsi che i fatti stanno mostrando come l’adozione di una moneta forte e le recenti misure d’austerità imposte a mezza Europa solo nel breve-medio periodo hanno portato dei vantaggi allo Stato tedesco però sembra che la morsa della crisi stia iniziando a stringere anche la Germania stessa. E’ ingenuo pensare che affossando tutte le nazioni confinanti si possa proseguire in una crescita economica isolata, infatti questo non sta avvenendo e nei prossimi trimestri ci sarà recessione anche nello stato governato da Angela Merkel. Quindi, in un certo senso cade il discorso che l’Euro e la politica economica di austerità adottate dall’Unione Europea siano tutte a vantaggio della Germania. A proposito rimando all’articolo “La lunga marcia dell’Eurocrazia” dove viene illustrata la via che deve portare alla fine delle sovranità nazionali per poter costituire lo Stato Europeo.
Ma tralasciando questa breve parentesi sulla Germania, vorrei porre una critica all’eventuale abbandono dell’Euro e al ritorno alla Lira che probabilmente ci porterebbe molti vantaggi economici. Immaginiamo di essere un’impresa che sta costruendo un fantasioso palazzo. Abbiamo costruito fino ad ora molto velocemente e siamo arrivati al decimo piano dove è necessario fermarsi perché l’ingegnere capo deve porre un quesito all’imprenditore: se si continua a salire in altezza si rischia il crollo dell’intero edificio, invece sarebbe necessario fermarsi e fare degli interventi per rinsaldare la struttura e il basamento dell’edificio stesso per poter continuare. Questo però comporta l’opposto rischio di subire troppi costi e quindi di dover abbandonare l’opera. Ecco questa è la nostra situazione. Ora, con l’Euro e con l’Unione Europea siamo stati costretti a fermarci ed anzi a causa delle politiche d’austerità e dell’adozione di una moneta troppo forte, il nostro paese è in recessione. Scegliere di tornare alla Lira equivale a continuare a costruire il palazzo rischiando il crollo dell’intero edificio. Al contrario, rinforzare la struttura e il basamento equivale a rimanere in Europa, riformare drasticamente il nostro paese a rischio di distruggerlo per sempre.
Quindi qual’è la mia riflessione? Che a livello economico sarebbe giustissimo tornare alla Lira, svalutare e ridiventare competitivi ma al tempo stesso questo comporterebbe continuare nella totale deresponsabilizzazione della nostra classe dirigente, che come sappiamo è ladra, sprecona e incapace e se ci fosse la Lira risolverebbe i propri problemi di bilancio svalutando, stampando e facendo debito. Probabilmente è vero prendendo questa strada torneremo a crescere però saremo sempre la mediocre Italia con una classe dirigente cialtrona e il fallimento sarebbe semplicemente rimandato di qualche anno.
Certamente rimanere nell’Euro è costoso e rischia di distruggere definitivamente il nostro paese, però finalmente ha messo la nostra classe politica con le spalle al muro e quindi o si cambia o si muore. E al tempo stesso anche il sonnolento popolo italiano ha iniziato ad accorgersi grazie alla crisi, della vergognosa classe dirigente a cui ha demandato il comando.
Il mio punto di vista è che bisogna rimanere nell’Euro, ad ogni costo, ma non perché sia positivo a livello economico, ma proprio perché è negativo, può essere il dolore necessario per poterci liberare da un sistema marcio e corrotto come è quello italiano.
Lo scenario che si prospetta nel caso rimanessimo nell’Euro è sicuramente molto nero anzi nerissimo probabilmente assisteremo alla più grave crisi della storia italiana (ora siamo solo agli inizi) e tutti i paesi europei subiranno una sorte analoga anche la Germania stessa e quando quest’ultima perderà il suo ruolo di guida, perché in minoranza (dopo l’ormai prossimo collasso francese), probabilmente si potrà arrivare a quell’unione politica ed economica necessaria per poter sostenere questa unione valutaria come specificato anche nelle conclusioni delle nove slides dell’articolo citato all’inizio.
Quindi in un certo senso, non so dire se voluto o no, questa unione valutaria apparentemente sbagliata potrebbe essere stata usata come strumento per impoverire e distruggere gli stati nazionali così da poterli facilmente portare ad un unione politica ed economica che in tempi di benessere e di crescita sarebbe stata impossibile da attuare dato che ogni stato nazionale difenderebbe i propri interessi e porrebbe veti. Quindi una sorta di caos controllato che sembra essere l’opera di un dilettante, ma, se voluto consciamente, in realtà non lo è affatto.
Inoltre, voglio anche affermare che pur subendo la crisi personalmente (lavorando nell’edilizia la crisi è forte e nell’ultimo trimestre non ho guadagnato un centesimo), benedico questa stessa crisi perché costringe con le dure il popolo italiano ed anche quello europeo, a svegliarsi dallo stato di torpore in cui ha vissuto fino ad ora. Uno stato di totale irresponsabilità dove la maggioranza dalla popolazione ha votato i propri rappresentanti senza nemmeno sapere cosa proponessero i loro programmi (e questo dovrebbe anche far riflettere sul fallimento della democrazia stessa) e depositando i propri soldi in banca senza nemmeno informarsi un minimo sulla situazione della banca stessa. Idem per investimenti o spese di carattere personale.
Quindi è questa la riflessione che voglio proporre. Oltre al lato negativo di questa crisi e di questa permanenza nell’unione valutaria, può essere un’occasione per rinforzare e riformare drasticamente la struttura del nostro stato, la nostra classe dirigente e le nostre abitudini spesso errate?
Al di là delle considerazioni puramente economiche, a livello politico abbandonare l’Europa e l’Euro per il nostro futuro sarebbe così conveniente?
Aspetto i vostri commenti a riguardo…
P.S.: questo mio articolo rappresenta una mia riflessione personale di carattere politico  e soprattutto anche se esprimo un parere favorevole sulla permanenza dell’Italia nell’Unione Europea e nell’Euro, questo non vuol dire che sia un sostenitore della tecnocrazia europea, del sistema truffaldino di creazione del denaro e del sistema bancario in generale.
by Fenrir

Paolo Barnard: "Con la lira, l'Italia era ricca e sovrana"


ANALISI POLITICA

Giorgia Meloni: "Le ragioni di Fratelli d'Italia per non votare la fiducia.

Nino Galloni: "Come ci hanno deindustrializzato"

ZOOTECNIA SOCIALE


Per Bruxelles siamo solo bestiame: fanno zootecnia sociale



Tanto rumore per il solito commissariamento del governo italiano. Si dà grande risalto mediatico al fatto che Pd e Pdl si mettano insieme, per nascondere la vera notizia: «Lo fanno per imporre decisioni prese al di fuori dell’Italia, sebbene si dimostrino rovinose». Ci portano al macello: con metodi di “allevamento” sperimentati precisamente nella zootecnia. Parola di Marco Della Luna, scettico nei confronti del governo Letta per un motivo semplicissimo: «Il potere politico è nelle mani di chi ha le leve macroeconomiche, soprattutto di decidere quanta moneta mettere in circolazione, a chi darla, a che tassi, a che condizioni, e di decidere se e quanto lo Stato possa investire, anche a deficit, per indurre l’attivazione dei fattori di produzione, l’occupazione, la crescita», oltre che «decidere sulla regolazione dei cambi valutari e regolamentare le importazioni di beni, servizi e capitali». Quindi, il conflitto d’interessi «non è tra Pd e Pdl, ma tra chi impone quelle decisioni e la gente che ne subisce gli effetti». 
Uno Stato senza più potere di spesa può solo “tirare un po’ la coperta”, e stop. L’ennesimo governo “commissariato” dal super-potere che condiziona Enrico Lettal’Italia potrà al massimo «spostare un po’ di soldi da un capitolo all’altro della spesa pubblica», magari alleggerire il peso fiscale trasferendolo da una categoria all’altra, «ma non può intervenire sulla recessione strutturale». I paesi dell’Eurozona, ricorda Della Luna, hanno devoluto questi poteri, interamente, ad organismi esterni, in primis la Bce per quanto riguarda il controllo della moneta. E la missione della Bce non è evitare la recessione, ma solo proteggere il potere d’acquisto dell’euro: quindi Francoforte «non può comprare titoli pubblici dai governi, cioè non può finanziarli direttamente, diversamente da altre banche centrali, come la Fed». A differenza della Federal Reserve, la Bce «non può intervenire per invertire una recessione strutturale, né per riequilibrare le disponibilità monetarie e creditizie nei vari paesi dell’Eurozona». Al più, Draghi lancia allarmi e interviene comprando titoli sui mercati secondari di quei paesi che rischiano, col loro default, di far saltare in aria l’euro.
Questo assetto, aggiunge Della Luna, paralizza qualsiasi soluzione positiva: senza possibilità di ottenere finanziamenti, gli Stati non possono usare le leve strategiche macroeconomiche (investimenti produttivi e infrastrutturali) per indurre crescita e piena occupazione, rimediando alla recessione. Via libera invece ai mercati, padronissimi di fare business “dribblando” gli Stati, incastrati dai vincoli di bilancio e impossibilitati a spendere denaro pubblico per il benessere dei cittadini. Un assetto mai sottoposto a validazione popolare, ricorda Della Luna: la politica in Italia ha preferito dividersi su Berlusconi, cioè su un tema praticamente irrilevante rispetto alla vera partita sul nostro futuro, che non si è mai giocata a Roma bensì a Bruxelles. In questo modo, si sta operando una drammatica “ristrutturazione sociale”: una piramide di super-tecnocrati concentra tutto Angela Merkelil potere e la ricchezza in poche mani, mentre il grosso della popolazione è ormai «povero sia di denaro che di diritti politici e civili», e resta in balia “del mercato”.
Per meglio affermare un simile piano egemonico, continua Della Luna, si fa in modo che, almeno per un certo periodo, questo comporti un vantaggio concreto per qualcuno, cioè la Germania, permettendole di «risucchiare capitali, aziende e tecnici dai paesi più deboli e abbattendo la loro competitività industriale». Gioco sleale, che va in porto grazie alla complicità dei paesi forti: «Il vecchio “divide et impera” funziona sempre». Complotto? «No, applicazione alla società dello schema gestionale della zootecnia, stabile e sicuro». E nei circoli che hanno formulato quell’insieme di scelte oligarchiche che producono questo insieme di effetti – Aspen, Trilateral, Bilderberg – troviamo anche il neo-premier Enrico Letta, «che quindi è parte e origine di quei mali che, al popolo, si racconta che dovrebbe risolvere attraverso la tormentosa unione con Berlusconi combinata dalla saggezza di Napolitano nello spirito del patriottismo, rinegoziando anche il patto di Maastricht con i poteri forti: si potrebbe immaginare una balla più grossa?».
In ogni caso, nell’Eurozona gli Stati un tempo sovrani sono stati declassati al rango di enti locali, non più dotati cioè di vero potere di spesa né di autonomia finanziaria. «Marginali sono anche le scelte di politica interna, sicché è risibile presentare come importante la scelta di fare un governo con Berlusconi: cambia ben poco». Tant’è vero che «i governi Berlusconi, esattamente come quelli Prodi e D’Alema, hanno seguito la linea dettata da Berlino e Bruxelles, e il modello economico prescritto da Washington». Il governo Letta? «Farà la medesima cosa, anche perché Enrico Letta, come pure suo zio Gianni, è uomo della finanza internazionale, esecutore dei suoi piani “europeisti” e difensore dei suoi dogmi, come ha messo nero su bianco nel suo libro “Euro sì: morire per Maastricht”. Sicché, «enfatizzare l’inciucio Pd-Pdl o la novità del “governissimo” è risibile, anche perché l’inciucio destra-sinistra, Dc-Pci, è in atto dalla fine degli anni ’40, col ben noto sistema di spartizione dei territori, delle poltrone, della spesa pubblica, dei ruoli morali e politici – sistema in cui, di fatto, il Pci votava oltre l’80% delle Marco Della Lunaleggi di spesa. Il “governissimo” è sempre stato il vero sistema di gestione del paese».
La novità, semmai, sta nel fatto che i due maggiori partiti ora «si accordano per mettere insieme la faccia nella gestione di un periodo pessimo», che genera scontento crescente, in vista di «provvedimenti ancora più impopolari». Il che, per i cittadini, non è una bella notizia: stare insieme al governo significa non dover temere la concorrenza dell’opposizione di fronte a decisioni dure, che magari comporteranno anche disordini e repressioni. La vera instabilità, aggiunge Della Luna, non è nella contrapposizione (fittizia) tra Pd e Pdl, ma in quella (reale e drammatica) tra l’élite mondiale e i cittadini italiani, certo non tutelati dalle comparse politiche nazionali. «Questa contrapposizione reale – aggiunge Della Luna – continuerà a generare e a gonfiare forze rappresentative della protesta dei delusi e degli oppressi di ieri e di oggi, anche se questa volta si riesce a integrare la Lega e a inertizzare provvisoriamente Grillo». Da Monti a Letta: «Non si riesce più ad evitare che l’opinione pubblica percepisca che i governi italiani sono tutti e inevitabilmente governi “Bildermerkel”», con programmi «imposti da burattinai stranieri», chiaramente «a danno di un paese e di un elettorato ormai svuotati di ogni autonomia, ridotti a colonia, e i cui riti elettorali e parlamentari non hanno alcun effetto o utilità».

lunedì 29 aprile 2013


Tamponare il disastro, stampando 10 

miliardi: di lire


Vorrei sottoporre all’attenzione di coloro che sono interessati la proposta che l’Italia provveda al soccorso dei cittadini più bisognosi mediante la stampa di moneta. Prego il lettore di prendere sul serio la frase “sottoporre all’attenzione”: è possibile che la proposta sia assurda, o che non lo sia ma ci siano ostacoli molto seri, o che sia inopportuna, e in generale che abbia dei difetti che io non ho visto. Penso però che valga comunque la pena di discuterne, eventualmente per decidere che è impraticabile. Qui di seguito i dettagli.   L’Italia dovrebbe stampare una moneta parallela all’euro, chiamiamola lira, da usarsi per distribuire un sussidio di disoccupazione generalizzato. Vari interventi, su cui non mi dilungo, suggeriscono che il valore complessivo dovrebbe essere dell’ordine di 10 miliardi di euro all’anno. Il tasso nominale di cambio più comodo sarebbe ovviamente 1 lira = 1euro; la lira però non dovrebbe essere convertibile in euro né in altre valute, né dare origine a depositi fruttiferi.Inoltre non dovrebbe essere utilizzabile per pagare contributi fiscali o previdenziali (dato che altrimenti si tradurrebbe in un’altra manovra, e cioè l’emissione di euro).
E’ appena il caso di ricordare che 10 miliardi costituiscono circa due terzi dell’1% del Pil. Il pericolo che la politicaqui suggerita abbia seri effetti Moneta complementareinflazionistici è quindi minuscolo, e certamente risibile di fronte al ben più grave pericolo di deflazione causata dalla costante diminuzione della domanda interna. Che corso dovrebbe avere la nuova valuta? Ci sono tre possibilità. La prima è che il corso sia puramente volontario. Le varie esperienze di monete locali che si stanno sperimentando un po’ dovunque sono incoraggianti, ma credo che l’accettazione volontaria non sia sufficiente per uno schema così ampio e non radicato in una specifica realtà locale. La seconda è che il corso sia forzoso. Non vedo obiezioni a questa possibilità, se non il malcontento che potrebbe generare, anche se probabilmente solo inizialmente, e possibili ostacoli giuridici nazionali o più facilmente europei.
La terza possibilità, intermedia fra le due, mi pare quindi la migliore. La moneta dovrebbe  essere utilizzabile solo per due usi specifici, e cioè 1) l’acquisto di beni, sia di consumo corrente, che durevole, che di investimento presso venditori disponibili ad accettarla; e 2) il pagamento delle spese di personale da parte dei medesimi, limitatamente a una data quota; diciamo che ogni dipendente potrebbe essere pagato in lire solo per il 25% della sua retribuzione netta. Il corso della moneta sarebbe quindi garantito semplicemente dal fatto che non ci sarebbe motivo di non accettarla: i venditori sarebbero indotti ad accettarla dalla concorrenza fra Guido Ortonadi essi e dal fatto che possono utilizzarla per pagare il personale, e il personale dalla possibilità di utilizzarla per acquisti correnti.
Un’occhiata ai dati suggerisce che questa strada è praticabile: una stima molto conservatrice dei redditi netti dei soli addetti al commercio è di circa 45 miliardi, quindi dieci miliardi sarebbero meno di un quarto dei loro redditi, una cifra sicuramente inferiore a quanto speso in consumi correnti. Ove necessario, ma non dovrebbe esserlo, l’accettazione della lira potrebbe eventualmente essere incentivata garantendo a chi riceve parte del salario o dello stipendio in lire un (piccolo) sconto fiscale determinato dal maggior gettito conseguente all’effetto espansivo della domanda aggiuntiva che si viene a creare. Vorrei sottolineare che considero quanto qui suggerito un palliativo per la crisi sociale italiana assai più che una soluzione. Credo (e mi pare che ormai siamo in molti a crederlo) che l’Italia sarà presto costretta a lasciare l’euro e/o a denunciare il debito pubblico; il problema è se lo faremo prima o dopo avere subito una macelleria sociale di tipo greco. In entrambi i casi si renderanno necessarie (e possibili) politiche molto più impegnative.
(Guido Ortona, “Finanziare i sussidi mediante moneta complementare”, dal sito “Il Main-Stream” del 25 aprile 2013. Il professor Ortona è docente di politica economica preso l’Università del Piemonte Orientale).

situazione drammatica in tutta l'Europa.


Macelleria Italia: tagli selvaggi, stipendi ai 

livelli del 1979


Tagliare gli sprechi della spesa pubblica, gonfiati dalla “casta” del pubblico impiego? Balle: l’Italia è scesa al di sotto della media Ocse per numero di occupati nella pubblica amministrazione. Dal 2006 al 2011, lo Stato ha tagliato 232.000 dipendenti pubblici. Una drastica “spending review” sostanziale, in ossequio all’ideologia neoliberista di Bruxelles, cominciata molto prima delle invettive di Brunetta contro i “pelandroni” o l’allarme scatenato da Grillo. Oltre alla salutare denuncia di sprechi intollerabili, la strana stagione delle crociate contro i privilegi della “casta” ha prodotto il disastro definitivo del tecno-governo “nominato” dalla Troika. A conti fatti, stanno letteralmente “smontando” lo Stato, costantemente sotto ricatto finanziario a partire dall’adesione all’Eurozona. Ora siamo alla “terza fase” dell’austerità, quella senza ritorno: devastazione dell’economianazionale e, naturalmente, privatizzazione lucrosa dei servizi pubblici, a danno dei cittadini.

La crescita del precariato nella pubblica amministrazione, e in particolare nei settori sensibili del welfare, cioè scuola e sanità, secondo Roberto Prodi: il primo a mettere in crisi in pubblico impiegoCiccarelli, analista di “Micromega”, è avvenuta proprio negli anni in cui iniziava la campagna mediatica anti-casta. Risultato: l’espulsione di oltre 200.000 persone dal sistema: «Il blocco del turnover non permetterà l’assunzione di nuovo personale, compresi i precari che attendono nel limbo una stabilizzazione impossibile». La virulenta campagna anti-casta ha funzionato come specchietto per le allodole: «Ha nascosto il processo di ridimensionamento del lavoro pubblico, in particolare nei settori che assicurano la riproduzione intellettuale e la cura della persona», rendendo proibitivo l’accesso al lavoro «in un mercato che è stato spogliato di ogni regola: a partire dallo Stato, il più grande sfruttatore di precari».
Contrariamente a una delle leggende diffuse dai sostenitori neoliberisti dello “Stato minimo”, continua Ciccarelli, i numeri dimostrano che l’Italia è sotto la media Ocse per numero di occupati nella pubblica amministrazione: i nostri dipendenti pubblici sono meno di quelli francesi e addirittura inferiori a quelli dei paesi anglosassoni, Usa e Gran Bretagna. Sotto di noi ci sono solo i “Piigs” Spagna e Portogallo e il nuovo “faro”, la Germania: ma niente paura, «l’Italia la raggiungerà presto, anche grazie al rinvio dei pensionamenti voluti dalla riforma Fornero, al blocco delle nuove assunzioni e al mancato rinnovo degli interinali, tempi determinati e flessibili, già in atto da tempo». Secondo la Ragioneria generale dello Stato sono diminuiti di oltre il 26% negli ultimi 5 anni. Per l’Aran, l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, il calo evidenziato nel 2012 (2,3%) continuerà Tremonti e Brunettaanche nel terribile 2013. «Il risparmio sugli stipendi sarà notevole: nel 2011 la spesa è stata di 170 miliardi (-1,6% sul 2010). Nel 2012 è calata a 165,36 miliardi (-2,3%)».
Peggio che andar di notte anche nelle retribuzioni: lo Stato italiano viaggia a ritroso nel tempo, tanto che oggi è tornato ai livelli del 1979 e, purtroppo, non si fermerà. I settori dove i tagli si sono fatti sentire di più, continua Ciccarelli, sono quelli che garantiscono il welfare, scuola e sanità, e poi gli enti locali e i ministeri. «Il processo è iniziato con l’ultimo governo Prodi, ma l’onda si è ingrossata rovesciando qualsiasi cosa davanti a sé quando Giulio Tremonti è tornato ad occupare la scrivania di Quintino Sella al ministero dell’Economia, spalleggiato da Renato Brunetta alla funzione pubblica e da Maria Stella Gelmini all’istruzione». Condizioni che hanno posto le basi per i tagli del futuro: nel mirino la Lombardia (dove lavora il 25% dei dipendenti pubblici), il Trentino Gelminie il Lazio con il 19% e il 18% di dipendenti in eccesso. In Calabria gli uffici sono invece sotto organico del 23%.
«Una controprova che l’austerità di Stato continuerà la offre il “rapporto Giarda” sulla spending review», avverte Ciccarelli: «Ci attendono nuovi tagli da 135,6 miliardi di euro sui beni e i servizi, 122,1 miliardi di retribuzioni nel pubblico, e un altro 5,2% a scuola e università che dal 2009 hanno già perso quasi 10 miliardi di euro». Inoltre sono previstitagli del 33,1% alla spesa sanitaria, oltre a un’altra sforbiciata del 24,1% agli enti locali, già taglieggiati dal patto di stabilità interno. Che fine fanno queste risorse finanziarie? Dovrebbero “ripianare il debito”, che però è aumentato nell’ultimo anno di 19 miliardi. «Questa è la regola dell’austerità: più tagli il debito (Monti l’ha fatto per 21 miliardi in 400 giorni), più il debito cresce a causa degli interessi pagati dallo Stato, mentre l’“efficienza” della spesa pubblica tagliata non migliora, deprimendo gli stipendi dei dipendenti (fermi al 2000 e in diminuzione dello 0,8% rispetto al 2011 e di un altro 0,5 e l’1% nel 2012)». Inutile girarci attorno: «L’austerità è un circolo vizioso, anche se c’è chi ancora pensa di reinvestire i “risparmi” fatti sui ministeri e gli enti locali per finanziare il debito che la pubblica amministrazione ha con le imprese».
Nel 2011, i precari della scuola italiana – docenti e impiegati – erano oltre 300.000, un esercito che rappresenta il 46% dei precari nel pubblico impiego. Dall’inizio della cura da cavallo imposta dalla coppia Tremonti-Gelmini nel 2008, i dati dell’agenzia Aran dimostrano che il personale nella scuola è diminuito a poco più di un milione di persone, grazie al taglio di oltre 150.000 addetti, pre-pensionati. Altra voce drammatica del regime di austerity, la sanità, dove lo Stato fra il 2008 e il 2011 ha tagliato quasi 15.000 dipendenti. Nel 2011, ricorda “Micromega” citando i dati diffusi dall’Aran, la spesa per il personale della scuola superava quello della sanità per solo mezzo punto percentuale, il minimo mai raggiunto in precedenza; nel 2012 la spesa della sanità avrebbe superato quella per la scuola, ma sarà un primato di breve durata: per la sanità, infatti, la famigerata “spending Piero Giardareview” prevede un “risparmio” addirittura del 32,7%, falciando innanzitutto i lavoratori precari.
Obiettivo finale del maxi-taglio dello Stato: la privatizzazione dei servizi. Lo si intuisce analizzando il Def, il Documento di Economia e Finanza approvato ad aprile 2013 dal governo Monti, che include un capitolo dedicato al Pnr, Piano Nazionale delle Riforme. «Più che alle cifre sulla “crescita” di un’economia in recessione tecnica da almeno due anni», osserva Ciccarelli, il documento esibisce «numeri scritti sull’acqua, come ad esempio l’aumento dell’1,3% del Pil nel 2014». Molto più interessante – e drammaticamente attendibile – l’annuncio delle cosiddette “riforme” che i tecnocrati insediati a Palazzo Chigi da Napolitano e Draghi lasciano in eredità al prossimo governo. Riforme “strutturali” che, ovviamente, «dovranno essere rispettate se l’Italia vuole mantenere il suo buon nome nel salotto europeo dell’austerità, e non essere considerata uno “Stato fallito”, cioè quello che è oggi».
In quello che Monti ha considerato solo un «work in progress», esistono in realtà tutte le decisioni prese nel “rapporto Giarda” sulla “spending review”: entro il 2016, spiega Ciccarelli, bisogna recuperare fino a 15 miliardi di spesa pubblica. «Questo significa tagliare il pubblico impiego tra i 2 e i 5 miliardi di euro e dismettere almeno 30 miliardi di immobili pubblici, pari all’1% del Pil». Sono i “famosi” 45 miliardi di euro da destinare all’ammortamento del debito sovrano che, secondo il Def, raggiungerà quest’anno il record del 130,4% e diminuirà entro il 2017 al 117%. «Una quota gradita alla Troika che sorveglia l’Italia». Le prime due fasi della “spending review”, si legge sempre nel Def, garantiranno 13 miliardi di “risparmi” entro il 2015. Ma bisogna continuare, altrimenti si ritorna nel “baratro”. Il Pnr stabilisce la regola d’oro che i prossimi interventi dovranno rispettare: «Prime vengono le città metropolitane, poi il taglio delle Enrico Bondi e Mario MontiProvincie che il governo non è riuscito ad imporre – nonostante la retorica del “fate presto!”».
In realtà, aggiunge Ciccarelli, la tosatura di grandi città e Province è solo una goccia nell’oceano dell’austerità. Perché poi viene il piatto forte, anzi fortissimo: «Bisogna tagliare su tutte le amministrazioni locali, già taglieggiate dal “patto di stabilità” interno». Quindi: tagliare i “rami secchi” dei ministeri e degli enti pubblici: «Si preparino gli enti di ricerca, ad esempio». Si annuncia già una stretta sulla spesa per beni e servizi, ma soprattutto un taglio al pubblico impiego. Tra pensionamenti ordinari e in deroga, part-time, mobilità volontaria e obbligatoria di due anni (dopo c’è il licenziamento) Monti prevede di “risparmiare” l’1% della spesa nel 2014 per poi tornare a salire dell’1% dal 2015, ma senza più assumere nessuno. Poi un memoir sull’Imu, già oggetto di contesa elettorale tra Monti e Berlusconi. «L’avvertimento al prossimo governo è chiaro: se non sarà riconfermata la tassa sulla prima casa fino al 2017, saranno necessarie due finanziarie straordinarie da 3,3 miliardi nel 2015, 6,9 nel 2016, 10,7 nel 2017». Dulcis in fundo: «Per rispettare l’austerità saranno necessarie nuove privatizzazioni».

morire di euro.


ENRICO LETTA E IL GOVERNO 

BILDERMERKEL

 Enrico Letta e il governo Bildermerkel:
tanto rumore per il solito  governo commissariale
 Si dà grande risalto mediatico al fatto che PD e PDL si mettano insieme nel governo, per nascondere il fatto veramente importante, ossia che lo fanno per portare avanti decisioni che sono prese da altri e da fuori dai confini italiani, e che sono imposte, e che vengono mantenute sebbene si dimostrino rovinose. La contraddizione, lo scontro di interessi, non è tra PD e PDL, ma tra chi impone quelle decisioni e la gente che ne subisce gli effetti.
 Il potere politico è nelle mani di chi ha le leve macroeconomiche, soprattutto di decidere quanta moneta mettere in circolazione, a chi darla, a che tassi, a che condizioni, e di decidere se e quanto lo Stato possa investire, anche a deficit, per indurre l’attivazione dei fattori di produzione, l’occupazione, la crescita. E decidere sulla regolazione dei cambi valutari, regolamentare le importazioni di beni, servizi e capitali. Uno Stato che non detenga questo potere, può tirare un po’ in su o un po’ in giù la coperta, e poc’altro. Cioè può spostare un po’ di soldi da un capitolo all’altro della spesa pubblica, può spostare un po’ di peso fiscale da una categoria a un’altra di soggetti, può riconoscere i matrimoni omosessuali e le coppie di fatto, ma non può intervenire sulla recessione strutturale.
 I paesi dell’Eurozona hanno devoluto questi poteri, interamente, ad organismi esterni. Alla BCE in quanto alla moneta, imponendo insieme vincoli rigidissimi di pareggio di bilancio. Inoltre, la BCE notoriamente ha il fine prioritario di proteggere il potere d’acquisto dell’Euro senza curarsi della recessione, e non può comprare titoli pubblici dai governi, cioè non può finanziarli direttamente, diversamente da altre banche centrali, come la Fed. Essa, programmaticamente, non può intervenire per invertire una recessione strutturale, né per riequilibrare le disponibilità monetarie e creditizie nei vari paesi dell’Eurozona; e invero non lo fa, lascia andare avanti le cose. Al più, lancia allarmi e interviene comprando titoli, sui mercati secondari, di quei paesi che sono a rischio di lasciare il tavolo dell’Euro per default.
 Il suddetto insieme di scelte presuppone una precisa decisione, ossia che, da un lato, il settore pubblico non sia in grado di usare le leve macroeconomiche (investimenti produttivi e infrastrutturali) per indurre crescita e piena occupazione, nonché di prevenire o risolvere le recessioni; e che, dall’altro lato, i mercati, lasciati sa se stessi, siano in grado di raggiungere quegli obiettivi, e per giunta, assieme ai vincoli di bilancio e al controllo monetario (fissazione dei tassi, soprattutto) da parte della BCE, siano in grado di operare anche la convergenza tra i vari sistemi economici dei paesi dell’Eurozona, senza bisogno di un budget federale e di un governo federale che intervengano per redistribuire le risorse finanziarie che, per varie ragioni, si concentrino in modo squilibrato e squilibrante in certi paesi, sguarnendo altri paesi. 
Si noti che questa fondamentale ed epocale decisione è stata presa senza proporne i termini all’opinione pubblica, senza coinvolgimento democratico,e viene realizzata attraverso una lunga, pluridecennale serie di trattati, leggi e riforme, i cui effetti non vengono spiegati se non falsamente, rimangono latenti per alcuni anni, in modo che la gente si abitui, e poi esplodono quando è troppo tardi per tornare indietro. Questa medesima decisione non viene mai posta nel dibattito pubblico, a cui si offre, invece, il dilemma se ci si possa alleare con Berlusconi oppure no.
 La predetta decisione si traduce nell’adozione di una concezione generale di come di fatto l’economia funziona e di come la si possa guidare, e dovrebbe essere oggetto di revisione, ossia di controllo empirico della sua correttezza. Cioè si dovrebbe controllare se produca i risultati predetti e desiderati, oppure no; nel secondo caso, andrebbe revocata siccome confutata dai fatti – così come avviene con qualsiasi teoria applicata alla realtà, con qualsiasi diagnosi, con qualsiasi ricetta.
Orbene, noi abbiamo che i fatti la confutano – la presente crisi recessiva, col suo perdurare, la confuta, assieme al crescente divario tra i paesi dell’Euro – però essa viene mantenuta; quindi questa decisione di mantenerla nonostante si dimostri errata e dannosa, va interpretata. Le ipotesi interpretative che mi vengono in mente sono che essa produca risultati diversi da quelli promessi, anzi contrari ad essi, ma sia conforme agli interessi di coloro che la mantengono, che hanno la forza di imporla. Interessi in termini di profitto (aumento dei redditi, concentrazione della ricchezza nelle loro mani) e/o in termini di ristrutturazione sociale e politica (concentrazione del potere nelle loro mani, in un modello sociale ove il vertice della piramide detiene un potere non contendibile e non sindacabile, mentre una minoranza di tecnici e funzionari gode di vari gradi di benessere e privilegio, e il grosso della popolazione è povero sia di denaro che di diritti e politici e civili, e sta sostanzialmente e passivamente a disposizione “del mercato”, privo di qualsiasi strumento per influenzare l’andamento della storia). Per meglio portare avanti questo piano, si fa in modo che esso dia un vantaggio concreto, per un certo tempo, ai paesi più forti (Germania in testa), permettendo loro di risucchiare capitali, aziende e tecnici dai paesi più deboli, abbattendo la loro competitività industriale. Così i paesi più forti stanno al gioco. Il vecchio divide et impera funziona sempre.
 Complotto? No, applicazione alla società dello schema gestionale della zootecnia, stabile e sicuro. E, nei circoli che hanno preso quella decisione, che hanno formulato quell’insieme di scelte che producono questo insieme di effetti (Aspen, Trilateral, Bilderberg, etc.), troviamo, almeno dal 1995, anche Enrico Letta, che quindi è parte e origine di quei mali che, al popolo, si racconta che dovrebbe risolvere attraverso la tormentosa unione con Berlusconi combinata dalla saggezza di Napolitano nello spirito del patriottismo, rinegoziando anche il patto di Maastricht con i poteri forti. Si potrebbe immaginare una balla più grossa?
 In ogni caso, Stati ed istituzioni politiche elettive, c.d. democratiche, conservano, nei paesi dell’Eurozona diversi dal paese creditore egemone, poteri marginali; quindi sono giuridicamente declassate ad autonomie locali, tanto più che la maggioranza dei provvedimenti legislativi adottati in tali paesi è in realtà un recepimento di norme decise dall’Unione Europea.
Marginali sono anche le scelte di politica interna, sicché è risibile presentare come importante la scelta di fare un governo con Berlusconi. Cambia ben poco. I governi Berlusconi, esattamente come quelli Prodi e D’Alema, hanno seguito la linea dettata da Berlino e Bruxelles, e il modello economico prescritto da Washington. Il governo Letta farà la medesima cosa, anche perché Enrico Letta, come pure suo zio Gianni, è uomo della finanza internazionale, esecutore dei suoi piani “europeisti”, difensore dei suoi dogmi, come ha messo nero su bianco nel suo libro Euroi sì: morire per Maastricht. Abbiamo quindi la prova scritta dei suoi obiettivi.
 Ma enfatizzare l’inciucio PD-PDL o la novità del governissimo è risibile anche perché l’inciucio destra-sinistra, DC-PCI, è in atto dalla fine degli anni ’40, col ben noto sistema di spartizione dei territori, delle poltrone, della spesa pubblica, dei ruoli morali e politici – sistema in cui, di fatti, il PCI votava oltre l’80% delle leggi di spesa. Il governissimo è sempre stato il vero sistema di gestione del Paese.
 La novità è semmai che i due maggiori partiti si accordano per mettere insieme la faccia nella gestione di un periodo pessimo, che genera scontento crescente nella base, e in cui si adotteranno provvedimenti ancora più impopolari. Il fatto di metterci la faccia insieme consentirà loro di fare porcate ancora più grosse di quelle passate, perché nessuno dei partiti della coalizione dovrà temere che altri partiti si avvantaggino delle misure impopolari e recessive che esso approverà, per conto di terzi. Porcate e, temo, violenze, perché la recessione continua e continuerà a peggiorare, e bisognerà ricorrere alla violenza e all’intimidazione per mantenere la gente nell’obbedienza al sistema, lasciandole come unica via di sfogo l’emigrazione, oltre al suicidio.
 Il fattore di instabilità di un simile governo marionetta di coalizione non è nella fittizia e recitata contrapposizione morale e ideologica o programmatica delle forze che lo compongono, bensì nella reale contrapposizione tra gli interessi della casta nazionale e dei suoi burattinai stranieri, che questo governo porta avanti, e quelli della popolazione generale. E questa contrapposizione reale continuerà a generare e a gonfiare forze rappresentative della protesta dei delusi e degli oppressi di ieri e di oggi, anche se questa volta si riesce a integrare la Lega e a inertizzare provvisoriamente Grillo.
 L’opportunità che governi come gli ultimi due offrono e sempre più offriranno, è che con essi non si riesce più ad evitare che l’opinione pubblica percepisca e discuta il dato di fatto centrale, ossia che i governi italiani sono tutti e inevitabilmente governi Bildermerkel commissariali e che i loro programmi effettivi sono imposti da burattinai stranieri per gli interessi loro e a danno di un Paese e di un elettorato ormai svuotati di ogni autonomia, ridotti a colonia, e i cui riti elettorali e parlamentari non hanno alcun effetto o utilità.
28.04.13 Marco Della Luna