spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

venerdì 29 novembre 2013

LA LEGA NORD E LA FAMIGLIA BOSSI

Lega nord, verso il processo Bossi e figli. “Truffa allo Stato per 40 milioni di euro”

L'ex leader del Carroccio è indagato per appropriazione indebita e truffa allo Stato per circa 40 milioni di euro in merito alla gestione dei fondi del partito. Per la moglie del Senatur e per Calderoli i pm chiedono l'archiviazione



Quaranta milioni di finanziamento pubblico alla Lega. Cifra maggiore rispetto ai 18 milioni di euro venuti alla luce finora. La Procura di Milano contesta al fondatore della Lega Umberto Bossi – nuovamente in corsa per la segreteria del partito contro Matteo Salvini il prossimo 7 dicembre – la “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” ossia i rimborsi elettorali ricevuti dal Carroccio in base ai rendiconti al Parlamento del 2008 e 2009. Una truffa allo Statocommessa, secondo i pubblici ministeri, in concorso con Maurizio Balocchi, segretario amministrativo della Lega ormai deceduto, per quanto riguarda il rendiconto dell’esercizio 2008 e con Francesco Belsito, ex tesoriere leghista per il 2009 e 2010. Con tanto di inganno ai presidenti di Camera e Senato e ai revisori pubblici delle due assemblee che autorizzavano i rimborsi basandosi su rendiconti volontariamente falsati “in assenza di documenti giustificativi di spesa e in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico”.
La Procura di Milano ha chiuso le indagini relative all’inchiesta “The family” in vista del prossimo passo: la richiesta di rinvio a giudizio per dieci persone, tra cui Umberto Bossi e i suoi due figliRiccardo e Renzo. Al centro, la gestione dei fondi della Lega, caso scoppiato nella primavera del 2012. Tra gli indagati, anche l’ex vicepresidente del Senato Rosi Maurol’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito e l’imprenditore veneto Stefano Bonet, l’uomo degli investimenti in Tanzania con i soldi del partito.
Chiuse le indagini anche nei confronti di Rosi Mauro, l’ex senatrice del Carroccio, che ora è accusata di una appropriazione indebita di 99.731,50 euro, denaro proveniente dalle casse del partito. Tra i soldi di cui l’ex esponente lumbard si è appropriata, secondo l’accusa, ci sono anche 77.131,50 euro “per acquisto titolo di laurea albanese in sociologia – si legge nel capo di imputazione – presso l’Università Kristal di Tirana a favore di Pierangelo Moscagiuro”, ex guardia del corpo della Mauro. Laurea presa il 29 giugno 2011 nella stessa università scelta da Renzo Bossi, detto ‘il Trota’, che consegue il titolo di studio in Gestione aziendale il 29 settembre 2010 con un “corso di studi” durato un solo anno.
Per la laurea del Trota a Tirana 77mila euro – A Renzo e Riccardo Bossi, i due figli del ‘Senatur’ Umberto, viene contestato di aver usato a fini personali circa 303mila euro di soldi pubblici ottenuti dalla Lega come rimborsi elettorali. Renzo detto ‘il Trota’, accusato come Riccardo di appropriazione indebita, avrebbe speso tra le altre cose oltre 77mila euro per l’“acquisto” dell’ ormai famosa laurea albanese “presso l’Università Kristal di Tirana”. Ma non solo. Il secondo figlio di Bossi, che, nel 2010, a 21 anni diventa il più giovane consigliere regionale mai eletto in Lombardia, pare avere una passione per le auto e per la velocità. Con la sua Audi A5 scorrazza per la Lombardia accumulando oltre 7mila euro di multe. Contestazioni che vengono pagate con i soldi del partito. E nonostante la cattiva condotta automobilistica, il Trota passa a una macchina più potente, un’Audi A6 pagata 48mila euro più 3mila di assicurazione. Ovviamente a spese dei contribuenti. Il 10 aprile 2012 Renzo è costretto alle dimissioni dalla sua carica in Regione. Lo scandalo dei soldi pubblici girati dall’ex tesoriere Francesco Belsito agli esponenti del Carroccio fa terminare l’incarico tre anni prima del previsto. Tuttavia, i due anni trascorsi al Pirellone gli fruttano, secondo la legge, 40mila euro di indennità
La passione per le auto di lusso di Riccardo Bossi - Il primo figlio del Senatur avuto nel 1979 dalla prima moglie Gigliola Guidali, i giudici contestano 52 pagamenti. Soprattutto multe – per oltre 2mila euro – ma non solo: con i soldi del partito Riccardo paga anche il mantenimento della moglie, l’affitto con tanto di bollette, il veterinario, l’abbonamento Sky, il garage e le spese di carrozzeria, nonché le rate per l’Università dell’Insubria. E poi debiti personali, bonificiassegni circolari. Infine, le auto: 20mila euro per il riscatto del contratto di leasing per la Bmw X5 e oltre 21mila per una Mercedes.
Richiesta di archiviazione per Calderoli e moglie di Bossi -  magistrati di Milano, titolari dell’inchiesta sulla Lega, hanno richiesto di archiviare le posizioni di Roberto Calderoli, Matteo Brigandì e Manuela Marrone, moglie di Umberto Bossi. Una archiviazione parziale, solo per alcuni episodi, è stata richiesta inoltre per Francesco Belsito, Umberto Bossi e Rosy Mauro, per altri fatti i magistrati ritengono allo stato di dover procedere. “Pagare le spese di un’abitazione a Roma, luogo dove principalmente si svolge l’attività politica e parlamentare, ad un esponente di punta del partito, può in definitiva a nostro giudizio essere una scelta di impegno finanziario legittima (salvo il dovere di darne conto in contabilità, qui non rispettato, non decisivo ai fini del reato di appropriazione indebita)”, scrivono i magistrati in riferimento alla posizione di Calderoli. Per quanto riguarda, invece, la posizione della Marrone, si ricorda come fin dalla prima relazione del pg, la moglie di Bossi sia stata inserita, insieme alla Mauro e ad altri famigliari del leader del Carroccio, all’interno del cosiddetto “cerchio magico che sarebbe stato alimentato con favoritismi ed elargizioni a danno del patrimonio della Lega”. “Certo -scrivono i pm di Milano- non si può escludere che delle somme corrisposte per la scuola Bosina in denaro contante la Marrone possa aver profittato a titolo personale. Ma per tutti gli indagati, come in questo caso per la Marrone, è stata applicata una rigorosa regola probatoria”.
Salvini: “Mafiosi e assassini possono attendere…”. Bossi: “Sconcertato” –  Matteo Salvini, che il 7 dicembre sfiderà Umberto Bossi alle primarie per la segretaria del partito, inneggia all’indipendenza e chiede “giudici eletti dal popolo” come unica via per sfuggire ai tribunali: candidato insieme a Bossi alle primarie per la segreteria del partito in programma il 7 dicembre”Finito (forse) con Berlusconi e Ruby, adesso il Tribunale di Milano torna a ‘occuparsi’ di Bossi e della Lega. I processi a mafiosi e assassini possono attendere… Giudici eletti dal Popolo eindipendenza unica via”, scrive sulla sua pagina Facebook il vicesegretario del Carroccio.  ”Questa cosa non mi aiuta certo…una cosa che esce proprio adesso e mi lascia sconcertato”, spiega invece Umberto Bossi che, a questo punto, potrebbe ritirarsi dalla competizione come già paventato nei giorni scorsi.

Corruzione in atti giudiziari: è questo il reato ipotizzato nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo.

Ruby, “per Berlusconi, Ghedini, Longo e Olgettine corruzione in atti giudiziari”

Depositate le motivazioni della condanna di Mora, Fede e Minetti. "Gravi indizi di reato" contro il Cavaliere, i suoi avvocati e la stessa Karima. Al via un'inchiesta per corruzione in atti giudiziari per lo stipendio versato a molti testi a favore. Come hanno ammesso le Olgettine in aula



Corruzione in atti giudiziari: è questo il reato ipotizzato nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo, oltre che di alcune ragazze ospiti ad Arcore, dai giudici di Milano nelle motivazione del cosiddetto processo Ruby bis, nel quale sono stati condannatiEmilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Secondo i magistrati il Cavaliere è “gravemente” indiziato del reato “di corruzioni in atti giudiziari” in qualità “di soggetto che elargiva il denaro e le altre utilità” alle ragazze-testimoni. Berlusconi per il processo principale è stato condannato a 7 anni per concussione e prostituzione minorile con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici Tra le varie ragazze che ammisero durante le udienze del processo di aver ricevuto denaro da Berlusconi ci sono Elisa TotiAris EspinozaIoana Visan Marysthelle Polanco. Prima di loro, durante l’inchiesta, erano state la stessa Nicole Minetti e Imma ed Eleonora De Vivo. Ma ci furono anche i casi di Mariano Apicella e Danilo Mariani (il pianista di Arcore) ai quali l’ex presidente del Consiglio avrebbe acquistato le rispettive abitazioni. Gli avvocati Longo e Ghedini si difendono e parlano di motivazioni “totalmente sconnesse dalla realtà e dai riscontri fattuali”. Le ragazze per le quali il tribunale ordina di procedere sono Diana Iriarte Osorio, Aris Espinosa, Marysthell Garcia Polanco, Barbara Faggioli, Ioana Visan, Elisa Toti, Lisney Barizonte, Francesca Cipriani,Alessandra Sorcinelli, Manuela e Marianna Ferrera, Concetta ed Eleonora De Vivo, Roberta Bonasia, Raissa Skorkina, Barbara Guerra, Ioana Claudia Almarghioale e Giovanna Rigato. Stessa accusa (falsa testimonianza) viene mossa dai giudici nei confronti di Karima El Mahroug, Luca Risso (marito di Ruby), Serena Facchineri, M’hamed El Mahroug, Giorgio Puricelli, Renato Cerioli, Carlo Rossella, Danilo Mariani, Simonetta Losi e Mariano Apicella.
“Berlusconi era l’utilizzatore finale”
E i giudici prendono in prestito dallo stesso avvocato Ghedini la definizione di “utilizzatore finale” per Berlusconi, mentre l’ex consigliera regionale Minetti “il tramite, per il pagamento di “una parte del corrispettivo corrisposto per il meretricio”. Il tribunale nelle motivazioni ha spiegato che Nicole Minetti avrebbe avuto un ruolo di “intermediazione affinché le ragazze (…) avessero la disponibilità di abitare in appartamenti in via Olgettina a titolo completamente gratuito, ossia non dovendo pagare né il canone di affitto” né le altre spese. Pertanto per il collegio “il dato che i canoni di locazione e le bollette varie venissero per il tramite della Minetti, pagati dall’utilizzatore finale delle prostitute denota come tali pagamenti costituissero, in concreto, una parte del corrispettivo corrisposto per il meretricio stesso”.
L’incontro del 15 gennaio 2011 tra B, gli avvocati e le ragazze
In un passaggio delle motivazioni della sentenza a carico di Fede e Mora, condannati a 7 anni, e diMinetti, condannata a 5 anni, i giudici della quinta sezione penale (presidente del collegioAnnamaria Gatto) ricostruiscono la riunione avvenuta ad Arcore il 15 gennaio 2011, quando dopo le perquisizioni del giorno precedente molte delle ragazze ospiti alla serate vennero convocate aVilla San Martino. “Tutti i soggetti partecipanti alla riunione e, quindi, anche tutte le ragazze, sono gravemente indiziati”, secondo i giudici del reato di corruzione in atti giudiziari. Le ragazze, infatti, “che poi rendevano false testimonianze (…) in qualità di testimoni e, quindi, pubblici ufficiali, ricevevano denaro ed altre utilità, sia prima che dopo aver deposto come testimoni”. Berlusconi viene indicato dai giudici come “colui che elargiva (e tuttora elargisce) le somme” alle ragazze. Gli avvocati Ghedini e Longo “in qualità di concorrenti” avrebbero “partecipato, nella loro qualità di difensori di Berlusconi, alla riunione del 15 gennaio 2011”.
“Le dichiarazioni delle ragazze con le stesse parole, di cui non sapevano il significato”
Peraltro le ragazze ospiti alle serate di Arcore, che hanno preso 2.500 euro al mese da Berlusconi mentre erano testi nei processi sul caso Ruby, “rendevano” in aula “dichiarazioni perfettamente sovrapponibili, anche con l’uso di linguaggio non congruo rispetto alla loro estrazione culturale”. I giudici sottolineano, dunque, la “ricorrenza” nelle deposizioni “di frasaggi identici” e “terminologie” di cui le giovani “a precisa domanda” non “sapevano riferire il significato”.
Fede e Mora “agivano in tandem e avevano paura che il sistema si interrompesse”Emilio Fede e Lele Mora sono stati “compari”, anche se il “burattinaio” (definizione del tribunale) era il direttore del Tg4. I due avrebbero agito “costantemente in tandem (…), in totale sinergia per procurare al “produttore” i “programmi che gli piacevano”, scrivono i giudici parlando anche dei “servigi” di Mora “per procurare a Silvio Berlusconi ospiti di suo gradimento”. Attività per cui Fede “trattava con l’ex premier la dazione di denaro a Mora pretendendo da questi un rilevante compenso per la mediazione”. Ma c’è di più: entrambi hanno di che guadagnare dalle serate di Arcore. Non solo per la presenza delle ragazze: “Fede, verosimilmente, ambisce a mantenere la posizione di prestigio da egli detenuta, nonostante l’avanzata età anagrafica, in Mediaset”, mentre Mora “ambisce a risollevare le sue disperate condizioni imprenditoriali mediante gli aiuti economici che Silvio Berlusconi gli può dare. Il presupposto (…) è la intraneità al ‘sistema prostitutivo’, l’accesso ai suoi segreti, la potenzialità implicitamente ricattatoria che gliene deriva, il perseverante funzionamento, la costante operatività del sistema stesso”. Tanto è vero, aggiunge il tribunale, che l’allora direttore del Tg4 “attacca e discredita, con Mora, Roberta Bonasia (una delle partecipanti alle cene, ndr) quando si accorge che la suddetta ‘sta prendendo possesso’, ovvero che la predetta inizia ad intrattenere un rapporto speciale con Silvio Berlusconi, tale da poter bloccare il collaudato meccanismo prostitutivo. Situazioni come quella temuta da Emilio Fede, infatti, ‘incepperebbero’ il funzionamento del ‘sistema’, estromettendovi i suoi organizzatori”.
Tanto che coinvolgono Ambra Battilana e Chiara Danese proprio “in funzione ‘anti Bonasia’” (parole dei magistrati): “Gli imputati (Fede e Mora, ndr) erano a tal punto certi della capacità persuasiva che erano in grado di esercitare da non mettere neppure in conto il fatto che le due ragazze, una volta capito cosa ci si aspettava da loro, declinassero l’offerta. Neppure la realtà di quanto era accaduto durante la ‘cena elegante’ (le due giovani si erano tenute in disparte ed erano andate via non appena possibile) aveva scalfito la sicumera degli imputati che, il giorno successivo, così commentavano tra loro la vicenda”. Segue intercettazione con Fede che dice: “Abbiamo spazzato via com’era prevedibile, spero, quella Roberta che è una stronza di merda” e Mora risponde “E’ arrivista”. 
Ruby accusata anche di rivelazione di segreti
I giudici di Milano nelle motivazioni della sentenza del processo Ruby bis hanno ipotizzato il reato di corruzione in atti giudiziari anche per la stessa Karima El Mahroug e il suo ex legale Luca Giuliante. L’avvocato si sarebbe interessato “ai vari pagamenti in contanti e bonifici” che la giovane marocchina avrebbe ricevuto “periodicamente”. Per Ruby e Giuliante i magistrati ipotizzano anche il reato di rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale. Il riferimento è al “misterioso” interrogatorio della notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010 della giovane davanti al legale, a Mora e “un emissario di lui”. I giudici hanno parlato di “anomalo interrogatorio” le cui modalità “indicano come l’atto fosse finalizzato non solo ad apprendere notizie destinate a rimanere secretate fino alladiscovery” e coperte dal segreto istruttorio “ma anche a farne uso diffondendole e rivelandole”. In quell’interrogatorio Ruby avrebbe raccontato quanto aveva riferito ai pm l’estate precedente sulle feste di Arcore, ricostruzione tra quelle al centro delle indagini della procura di Milano e a quell’epoca non ancora resa pubblica.
Non solo: secondo il tribunale Ruby “prima di deporre come testimone” rese “pubbliche dichiarazioni” mettendo in atto “un’attività di possibile contaminazione probatoria”. Lo scrivono i giudici di Milano riferendosi alla protesta che inscenò la ragazza davanti al tribunale convocando la stampa lo scorso aprile per difendere se stessa e Berlusconi. Il collegio fa notare come Ruby lesse un testo dal “linguaggio particolarmente tecnico”, per sua stessa ammissione “preparato da altri”, non “è noto da chi”. Infine Giuliante. L’ex avvocato di Ruby per il tribunale rivelò proprio a Berlusconi il contenuto “dell’anomalo interrogatorio” a cui la giovane venne sottoposta nell’ottobre 2010. Il Cavaliere “a sua volta rendeva partecipi delle notizie apprese vari personaggi del suo entourage, tra cui Nicole Minetti”. Nell’interrogatorio a Karima vennero chieste notizie coperte da segreto istruttorio.

LA CORTE DEI CONTI APRE IL FASCICOLO SUI COSTI DELLA TORINO-LIONE

Tav, la Corte dei Conti apre un fascicolo sui costi della Torino-Lione

La decisione è stata presa dai magistrati contabili in seguito a un esposto presentato dall'associazione Pro Natura Piemonte e da un consigliere comunale di Condove. Da verificare se possa portare a un danno erariale la spesa per un tratto aggiuntivo di 33 km in territorio francese a cui l'Italia contribuirà per il 57,9%

Tav
La procura regionale della Corte dei conti ha aperto un fascicolo sui costi del Tav Torino-Lione. Lo hanno comunicato il presidente dell’associazione Pro Natura Piemonte Mario Cavargna e il consigliere comunale di Condove (Torino) Alberto Veggio, i due firmatari dell’esposto che sottopone all’attenzione dei magistrati dubbi e incongruenze degli accordi tra Francia e Italia.
Dall’esame dei documenti di trattati, intese e accordi internazionali sul progetto Cavargna e Veggio hanno trovato alcuni punti incerti che riguardano il tratto comune (quello che dovrà essere pagato al 57,9% dall’Italia e al 42,1% dalla Francia) della linea ad alta velocità. Nell’accordo di Roma del 29 gennaio 2012 è stata aggiunta a questo percorso un segmento di 33 km (in territorio francese, tra Saint Jean De Maurienne e Montmelian, vicino Chambery) che dovrebbe essere pagato al 57,9 % dall’Italia. Questa variazione non prevista dagli accordi precedenti “pone a carico del Governo italiano la spesa di circa due miliardi di euro”, si legge nell’esposto. Siccome l’accordo di Roma è soltanto tra Italia e Francia, non è detto che l’Ue finanzi una parte della realizzazione. Inoltre “non si capiscono le ragioni e le contropartite che possono avere originato un impegno italiano di tale consistenza”.
Per questa ragione Pro Natura e il consigliere Veggio, nell’esposto presentato lo scorso febbraio, chiedevano alla magistratura di “verificare l’ammontare del danno erariale causato dall’accordo sottoscritto a Roma il 29 gennaio 2012” ed eventualmente di sospenderne la validità. Nel frattempo l’accordo è stato ratificato il 12 novembre scorso alla Camera, nonostante i tantissimi emendamenti depositati dal Movimento 5 Stelle e da Sel. In occasione del voto Laura Castelli del M5S aveva sollevato in aula i dubbi relativi all’aggiunta dei 33 km nuovi alla tratta comune con l’aumento di costi per lo Stato italiano: “Visto che il relatore di maggioranza della commissione bilancio aveva rilevato delle discrepanze sui costi, io avevo fatto mettere l’esposto agli atti, in sede di ratifica – spiega lei -. Avevo segnalato il fatto che la denuncia era ferma da molto tempo, cosa che ho ribadito in aula”.
Di recente la procura contabile ha assegnato un “numero di posizione” all’esposto che, spiegano i denuncianti, “consente da ora di convogliare presso un unico fascicolo i numerosi rilievi sulle irregolarità del cantiere e del progetto”. Sono già soddisfatti di questo primo passo. Per loro l’apertura del fascicolo “risulta di grande importanza” anche perché, affermano in un comunicato, riguarda “anche i costi di allestimento del cantiere della Maddalena”. Veggio e il gruppo consiliare “Buongiorno Condove” avevano già sottolineato in passato le incongruità delle spese dell’allestimento del cantiere denunciando le irregolarità delle procedure e dei costi. Adesso sperano che pure questi rincari siano vagliati dalla procura. “L’intervento di una magistratura di così alto prestigio non può che essere positivo – afferma Cavargna – perché solo se c’è fiducia nella giustizia gli animi si rasserenano, mentre negli ultimi anni si è fatto molto per provocarli”. La deputata Castelli ritiene positiva l’apertura dell’indagine: “Spero che i magistrati procedano in fretta”.

FEDERICO PERNA, E' MORTO IN CELLA ABBANDONATO NONOSTANTE FOSSE GRAVEMENTE MALATO.

Carceri, la madre di Federico Perna: “Era malato. L’hanno lasciato morire in cella”

Il 34enne, tossicodipendente affetto da cirrosi epatica ed epatite C, è deceduto nel carcere di Napoli l'8 novembre. "Avevamo più volte chiesto il trasferimento. Da una settimana sputava sangue, aveva chiesto di essere ricoverato"

Carceri
Federico come Stefano. Ascoltando la storia di Federico Perna, 34 anni, il pensiero va subito a Stefano Cucchi, che di anni ne aveva appena 31. Anche Federico è morto nelle mani dello Stato, di quello Stato che avrebbe dovuto punirlo per i reati commessi, certo, ma anche curarlo. Perché quel ragazzo di 34 anni della provincia di Latina, tossicodipendente da 14, oltre a dover scontare un cumulo di pene che lo avrebbe tenuto dentro fino al 2018 (l’ultima condanna per lo scippo di un telefonino), era malato di cirrosi epatica e di epatite C cronica, aveva problemi di coagulazione del sangue e disturbi psichici. Eppure aveva già scontato tre anni, rimbalzando da un carcere all’altro – Velletri, Cassino, Viterbo, poi di nuovo Cassino, Secondigliano, Benevento, ancora Secondigliano – ed era finito a Poggioreale, “undicesimo detenuto in una cella di undici metri quadrati”. È lì che è morto, l’8 novembre, “dopo una settimana che sputava sangue”, in circostanze – come dicono le autorità in questi casi – ancora da chiarire.
“MI HANNO dato tante versioni diverse – racconta la mamma di Federico, Nobila Scafuro, al Fatto Quotidiano –: mi hanno detto che era morto nell’infermeria del carcere, poi in ambulanza, poi nel reparto dell’ospedale Federico II di Napoli. Ho telefonato alla direzione del carcere, vivendo a 300 chilometri di distanza, non mi sono stati neanche a sentire. Io mi sono dovuta andare a cercare il morto vagante”. Così come la famiglia Cucchi, anche la signora Scafuro ha deciso di diffondere le immagini – terribili – di suo figlio sul lettino dell’obitorio. Nel caso di Stefano, la scelta fu determinante ai fini dell’interessamento mediatico. I risultati dell’autopsia, eseguita il 14 novembre, non sono ancora arrivati – “il magistrato si è riservato 90 giorni di tempo, ma spero che la verità emerga prima” – ma per la mamma di Federico una cosa è certa: “Mio figlio non doveva stare in carcere. Lo scorso anno, attraverso il nostro avvocato, Camillo Autieri, abbiamo presentato tre referti di medici legali e primari ospedalieri e abbiamo chiesto l’incompatibilità carceraria. Ma le istanze sono state tutte rigettate dai magistrati di sorveglianza”.
“Ora abbiamo fatto richiesta per conoscere le motivazioni”, conferma il legale. Per tenere buono Federico in cella, denuncia la famiglia, gli venivano somministrate pesanti dosi di psicofarmaci etranquillanti: “Valium, Rivotril, più le medicine passate dal Sert”. “Questo faceva sì che il ragazzo non potesse provvedere alla propria cura quotidiana – spiega l’avvocato Autieri – e non avesse, in più di un’occasione, la capacità di discernimento”. Esattamente come nel caso della famiglia Cucchi, nessuno fa mistero della tossicodipendenza di Perna. “L’ho visto con lo zigomo gonfio – prosegue la signora Scafuro – e un suo compagno di cella lo ha convinto a dirmi che gli avevano dato un pugno. Non era la prima volta, a Viterbo c’è una denuncia penale: lo hanno picchiato perché teneva una lattina di Coca Cola in fresco sotto il rubinetto dell’acqua”. Ipotesi naturalmente tutte da accertare.
NEGLI ULTIMI giorni, però, le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate: “Da una settimana sputava sangue dalla bocca, il martedì prima di morire aveva chiesto di essere ricoverato”. La Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un’inchiesta e si annuncia fin d’ora una battaglia di perizie. Proprio come nella vicenda CucchiLa madre del ragazzo si è rivolta alle associazioni che si occupano di detenuti: Ristretti Orizzonti ha contribuito a diffondere la storia e le immagini di Federico, Antigone sta seguendo il caso da vicino. “In questa fase posso solo auspicare una rapida soluzione dell’inchiesta”, commenta Mario Barone, presidente di Antigone Campania e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzioneIntanto il Movimento 5 stelle ha presentato alla Camera un’interrogazione al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. 
Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è a conoscenza della situazione – anche perché sono già state presentate due interrogazioni parlamentari –, anche se il Fatto ha più voltecercato, senza esito, di mettersi in contatto con il vice capo vicario Luigi Pagano. “Non ho il numero del ministro Cancellieri, ma vorrei porle tre domande – conclude la madre –: perché Federico era ancora dentro, visto che era malato gravissimo? Perché non è stato ricoverato martedì, quando ha chiesto non di andare in discoteca ma di essere curato? E perché l’hanno massacrato di botte?”. Federico faceva di cognome Perna.
Da Il Fatto Quotidiano del 29 novembre 2013

QUALCOSA GIA' VISTO -Terra dei fuochi, l’ex finanziere: “Miei colleghi insabbiarono inchieste su veleni”

Terra dei fuochi, l’ex finanziere: “Miei colleghi insabbiarono inchieste su veleni”

Giuseppe Carione, maresciallo in pensione, racconta gli sversamenti di rifiuti nei campi in provincia di Caserta. "Ora lì crescono le fragole, nessuno ha mai scavato: se i pm me lo chiedono, li accompagno sul posto"

Rifiuti tossici
Colpa della camorra, certo. E anche di certa imprenditoria senza scrupoli. Ma se per anni è stato possibile sversare nei campi della Terra dei Fuochi qualsiasi genere di veleno, questo è avvenuto anche grazie al silenzio di pezzi dello Stato, che dovevano controllare i luoghi e perseguire i criminali. Ma qualcuno non ha fatto il suo dovere. Lo afferma un maresciallo in pensione dellaGuardia di Finanza, che ha raccontato ai magistrati di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) una storia che fa venire i brividi. Si chiama Giuseppe Carione e per quindici anni, dal 1989 al 2004, è stato in servizio presso la compagnia di Aversa con il grado di maresciallo capo e la qualifica di verificatore fiscale.
Carione dice di aver visto sotterrare schifezze di ogni tipo nei campi tra AversaLusciano eParete, nella provincia casertana. Dice che alcuni colleghi finanzieri, tra i quali colonnelli egenerali, sapevano tutto, ma hanno chiuso un occhio e non hanno indagato. Dice che su quei terreni ora ci fanno crescere le fragole. “Se i magistrati me lo chiedono, li porterò nei luoghi precisi dove scavare. Ci sono andato qualche tempo fa, nessuno ha mai scavato, una parte è desertificata, non c’è manco l’erba, in un’altra parte invece ci sono serre coltivate, vi crescono le fragole: chissà chi le ha mangiate in questi anni”. Carione è parte lesa di un procedimento penale nato dai suoi esposti contro alcuni alti ufficiali delle fiamme gialle, denunciati per presunti occultamenti di inchieste e accertamenti fiscali.
Nei mesi scorsi, tramite una memoria di tre pagine indirizzata al gip, il maresciallo ha rincarato la dose contro i suoi ex colleghi: sarebbero stati complici anche dell’avvelenamento dei terreni agricoli. Accuse tutte da verificare. Ma Carione è preciso e circostanziato. Si riferisce a fatti del 2002. Porta all’attenzione degli inquirenti un’esperienza maturata sul campo. E precisa che gli appostamenti grazie ai quali scoprì lo smaltimento illegale di rifiuti tossici nelle campagne del casertano furono compiuti grazie alle ‘imbeccate’ di colui che pochi anni dopo sarebbe diventato uno dei pentiti di camorra più ascoltati dalla magistratura campana: l’imprenditore Gaetano Vassallo, il ‘ministro dei rifiuti’ del clan Bidognetti, uno dei principali accusatori di Nicola Cosentino nel processo Eco4. Vassallo, che all’epoca si era ritagliato il ruolo di ‘informatore’ della polizia giudiziaria, mosso forse anche dallo scopo di eliminare dal mercato qualche concorrente ai suoi business, avvisò il maresciallo e l’allora comandante della compagnia di Aversa “che era in atto, in Agro, tra Aversa e Lusciano (o Parete) un grosso traffico di rifiuti pericolosi smaltiti su terreni agricoli da parte dei fratelli Roma (Elio e Generoso) di Trentola Ducenta”.
Ecco il resoconto di Carione sull’esito della soffiata, passaggio chiave della memoria al Gip: “Osservammo alcuni camion con cassoni che scaricavano su una tenuta di terreno agricolo, incolto e senza piante, grossi quantitativi di fanghi umidi di colore grigio scuro, mentre un grosso escavatore meccanico provvedeva immediatamente ad occultarli sotto terra. Tale camion entrava in una fabbrica di trattamento rifiuti con impianto industriale sita alla periferia nord di Trentola Ducenta, in provincia di Caserta, nelle immediate adiacenze della strada che porta a Ischitella ed attigua a un ristorante denominato Il Mericano. Da quel momento non ho saputo più nulla – afferma Carione – e, per quanto mi è dato sapere, non venne informata l’autorità giudiziaria. Non venne effettuato alcun sequestro di terreno agricolo, ove venivano occultati i rifiuti, né sequestratiautomezzi, né vennero effettuati arresti di individui seppure vi era la flagranza di una serie di reati ambientali, sanitari, associativi, riciclaggio e fiscali”.
Insomma, quegli sversamenti rimasero impuniti, sostiene il maresciallo, che nelle sue denunce fa nomi e cognomi dei presunti responsabili dell’insabbiamento. Per loro la Procura ha chiesto due volte l’archiviazione, il Gip sta valutando. Indagine complessa, delicata. Il pm, per proteggere l’identità degli alti ufficiali coinvolti, li ha iscritti nel registro degli indagati usando nomi fittizi. La vicenda ebbe sviluppi particolari. Carione fu improvvisamente trasferito a Ischia. Nel 2005, tre anni dopo quei misteriosi intombamenti di fanghi tra Aversa e Lusciano, i fratelli Roma furono arrestati dai carabinieri per traffico illecito di rifiuti. Oggi il maresciallo in pensione si augura che le sue segnalazioni abbiano finalmente un seguito. Undici anni dopo. Per salvare il salvabile.