spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

lunedì 31 marzo 2014

C'è lo zampino di Renzi nel caos del M5S


Attento Grillo, il default del M5S è vicino. I consigli di Mello

27 - 02 - 2014Francesco De Palo
Attento Grillo, il default del M5S è vicino. I consigli di Mello

C'è lo zampino di Renzi nel caos del M5S, spiega Federico Mello, giornalista dell'Huffington Post Italia. e autore di “Il lato oscuro delle stelle”, che spiega di attendere le Europee per sapere se sarà default o meno.
I Cinque stelle? Non hanno ancora fatto default, ma restano le contraddizioni interne. L’esperto grillino Federico Mello, giornalista dell’ Huffington Post Italia e autore di “Il lato oscuro delle stelle commenta così il caos del Movimento di Grillo, nella consapevolezza che per l’impostazione aziendale che ha della politica, preferirebbe un partito anche al 15% che si comporta in un solo modo, piuttosto che uno al 25% ma dove il confronto poi si fa inevitabile.
Il M5S ha fatto default?
Non ancora. Certamente le sue contraddizioni emergono in modo lampante, e covano fin dall’inizio essendo strutturali al movimento stesso secondo il mio punto di osservazione. Bisognerà vedere quali conseguenze ci saranno.
Si va infrangendo il sogno pentastellato?
Per scoprirlo sarà necessario attendere le elezioni europee, anche perché il caos di questi giorni è frutto di fattori esterni al movimento come la centralità di Matteo Renzi nel suo tentativo di rialimentare la fiducia nei confronti della democrazia parlamentare e delle forme classicamente rappresentate.
Grillo dice: “In meno ma più forti”. A quale prezzo?
Come si è notato ieri, era anche una frase di Stalin, è chiaro che nella purezza si scontra sicuramente con un consenso più largo. Per cui quell’assunto vale sia all’interno che all’esterno del M5S. Tutto ciò non deve stupire, non dimentichiamoci che Grillo fondamentalmente e dichiaratamente guida un movimento di opposizione e non di governo. Quindi tutto sommato assieme a Casaleggio per l’impostazione aziendale che hanno della politica, preferiscono un partito anche al 15% che si comporta in un solo modo, piuttosto che uno al 25% ma dove il confronto poi si fa inevitabile.
La pratica delle espulsioni rischia di ridurre questo esperimento parlamentare ad una mera parentesi?
Secondo me il rischio esiste, ma non è dovuto alle espulsioni: esse sono una conseguenza non una causa. Come tutto il resto, dimostrano in modo lampante le contraddizioni del movimento che, a differenza di un partito, fa della partecipazione un suo punto di riferimento irrinunciabile. Mi riferisco alla collegialità e alla mancanza di intermediazioni. In questo caso invece Grillo e Casaleggio intendono il movimento come un’azienda privata. Non a caso lo statuto, uno dei pochi documenti ufficiali, recita che il M5S è uno spazio fondamentalmente di rilancio e discussione delle battaglie di Beppe Grillo.
Siamo in presenza di eletti che gravitano attorno ad un blog?
Se dovessimo parlare delle battaglie interne aziendali, lo statuto stesso prevede che gli eletti siano una sorta di rappresentanti, degli agenti di commercio del verbo del blog. Ciò si scontra con l’impostazione data inizialmente al movimento, inteso come spazio di orizzontalità assente negli altri partiti. Quindi chi ha creduto in Grillo come mazziere e architetto di uno spazio pubblico, pensa che sia giusto confrontarsi. Chi invece pensa che Grillo abbia costruito uno spazio privato in cui far confluire le proprie battaglie, allora si schiera per quello che considera il vero grillismo.
Verosimile una nuova maggioranza con gli esuli grillini, così come auspicato da Pippo Civati?
Non la vedo come ipotesi, quantomeno molto difficile prima delle europee. Ma se il caos dei Cinque stelle dovesse aumentare con una performance da 10% alle europee e Renzi dovesse uscire rafforzato perché magari riesce a portare a casa alcune riforme, allora le cose cambierebbero sensibilmente. Se invece il Premier dovesse impantanarsi, e Grillo dovesse individuare una chiave per ottenere consenso, beh la considero una strada poco credibile.
twitter@FDepalo

ELEZIONI AMMINISTRATIVE FRANCESI, IL FRONTE NAZIONALE E' IL TERZO PARTITO

Elezioni in Francia, i socialisti perdono 155 città. Le Pen conquista 15 municipi

I dati del ministero dell'interno segnalano un aumento dell'astensionismo rispetto al primo turno di domenica 23 marzo. Marine Le Pen: "Da oggi siamo il terzo grande partito nel Paese". A Parigi vincono i socialisti con Anne Hidalgo, la prima donna a guidare la capitale

Marine Le Pen
Il secondo turno delle amministrative in 6.455 comuni ha registrato un’affluenza del “63,70% contro il 65,22% del 2008”, come riferito dal ministro dell’Interno Manuel Valls. L’astensione è stata quindi fortissima, come al primo turno.  Alla prima tornata del 23 marzo gli elettori hanno punito il partito socialista del presidente Francois Hollande, segnato un’avanzata della destra tradizionale dell’Ump e una forte affermazione del Front National, partito più votato in 18 municipalità.  Ai ballottaggi la destra complessivamente ha conquistato il 45,91% dei voti contro il 40,57 della gauche. Il Front National raggiunge il 6,84% dei suffragi e l’estrema sinistra lo 0,06%.  
La sconfitta della gauche assume proporzioni storiche. Dopo aver strappato alla destra 90 municipi nel 2008, nel perde ora 155 nelle città più grandi (oltre 9.000 abitanti). “Dieci città di oltre 100mila abitanti passano da sinistra a destra – ha dichiarato Valls – così come 40 comuni fra i 30mila e i 100mila abitanti” e 105 “fra i 9mila e i 30mila abitanti”. I socialisti devono abbandonare storici bastioni come Roubaix, Angers, La Roche-sur-Yon, Nevers, Quimper, Bastia, addirittura Limoges, che aveva un sindaco di sinistra da oltre un secolo, dal 1912. Il partito di Hollande tiene però Parigi, dove la netta vittoria di Anne Hidalgo, la prima sindaco donna della capitale, segna la sconfitta dell’agguerrita avversaria Ump Nathalie Kosciusko-Morizet. Confermate alla sinistra StrasburgoLille (con Martine Aubry), Digione e  Lione, dove l’attuale sindaco Gerard Collomb è eletto per il terzo mandato consecutivo, e Nantes, feudo elettorale del premier Ayrault, dove l’ex vicesindaco Johanna Rolland vince con quasi il 57%. Passa invece al centrodestra Tolosa, storico bastione della sinistra e della mobilitazione sindacale transalpina, in cui l’Ump Jean-Louis Moudanc supera con poco più del 51% il sindaco uscente Pierre CohenSaint-Denis, città ‘calda’ della banlieue parigina, si conferma l’unico centro di Francia con oltre 100 mila abitanti guidato dai comunisti: il sindaco uscente Didier Paillard sopravanza, seppur con uno scarto risicato, il rivale socialista Mathieu Hannotin.
Il Front National era stato il vincente del primo turno e il suo grande risultato regge – con la conquista di almeno 14/15 municipi – ma il volto di Marine Le Pen negli studi delle tv denunciava un pò di delusione: il Front non ha sfondato ad Avignone, dove il mondo della cultura si era sollevato all’ipotesi di una sua vittoria. Non ce l’ha fatta nemmeno a Forbach, in Mosella, dove era in corsa il mediatico vicepresidenteFlorian Philippot, né a Perpignan, nel sud, dove sperava di vincere Louis Aliot, vicepresidente e compagno della Le Pen. Tra le città di cui Fn prende il controllo, ci sono Fréjus, Béziers, il ‘septième secteur’ di Marsiglia, Le Luc, Le Pontet, Beaucaire, Villers-Cotterets, Hayange e Cogolin, oltre aHénin-Beaumont già ottenuto al primo turno.
Il sindaco uscente di centrodestra Jean-Claude Gaudin conserva il posto di primo cittadino di Marsiglia, con il 42,6% dei voti, oltre 12 punti in più dello sfidante socialista Patrick Mennucci, secondo proiezioni diCsa/Ricoh per BfmTv. Per Gaudin si tratta del quarto mandato consecutivo. Il candidato nazionalista Gilles Simeoni conquista con il 55,8% la poltrona di sindaco di Bastia, seconda città della Corsica, secondo le proiezioni di France 3. Sconfitto il candidato socialista Jean Zuccarelli, figlio del sindaco uscente Emile Zuccarelli.  Nella conferma degli ottimi risultati, il Front National deve incassare la sconfitta dei suoi duevicepresidenti: a Forbach, in MosellaFlorian Philippot ha perso il ballottaggio con il sindaco socialista uscente.
L’esito dei ballottaggi in Francia è solo l’ultima conferma della tendenza che è in atto in molti Paesidell’Unione. I movimenti della destra euroscettica ed estrema, ma anche quelli della sinistra più radicale, si preparano a raccogliere i voti con cui i cittadini dei 28 Paesi membri più colpiti dalla crisi intendono esprimere la loro protesta verso una politica europea dominata, secondo la percezione popolare, da due sole parole d’ordine: austerità e rigore. E che ha visto il numero dei disoccupati crescere costantemente, specialmente tra i più giovani.
fonte: ilfattoquotidiano.it

FURIO COLOMBO E LA FORZA POLITICA DEL GIOVANE ROTTAMATORE

I blog de IlFattoQuotidiano.it
Furio Colombo
Giornalista e scrittore
Segui Furio Colombo:

Il segreto di Matteo Renzi? Non essere stato eletto

Credo di avere capito e voglio condividere con voi questa rivelazione. Renzi, che riesce anche quando non riesce, e aumenta nel gradimento anche dopo i colpi a vuoto, è al centro dell’attenzione benevola della maggioranza dei cittadini non perché è giovane, e neppure perché è così diverso da tutti gli altri, come si usa dire. Il fatto che conta, e che lo sostiene come un atleta portato a spalle, è che Renzi non è mai stato eletto.
Non so se vi rendete conto di quanto valga questa carta in tempi di furiosa anti-politica. Renzi non è la casta. Poiché non ha mai fatto campagna elettorale (tranne che nella sua città e nei percorsi interni delle “primarie”), non si può tentare di tenerlo in quel perenne stato di punizione che spetta ai politici veri eletti, non gli si può gridare “da che pulpito!”. E non gli si possono rimproverare cose mai accadute. Direte che ha promesso molto e ha ottenuto solo risultati modesti o vittorie apparenti. Non è il punto. 
Il punto è che Matteo Renzi è entrato direttamente nella stanza dei bottoni (niente prescrive o prevede che uno passi di lì e vi entri perché è uno bravo o si presume che sia bravo) e vi resta non solo incontrastato ma abbastanza apprezzato. La ragione è che non è mai stato eletto. Lo so che mi sto ripetendo, ma non mi pare vero di avere individuato la ragione che, con un po’ di fortuna e di faccia tosta (che non gli manca), lo salverà a lungo dal crollo dei controsoffitti politici che colpiscono così presto quasi tutti i regolari della politica.
Direte che altri, prima di lui, avevano governato senza essere stati eletti. Vero, ma erano bene in vista due condizioni: una situazione di emergenza; e una lista di poche, essenziali cose da fare, subito. Qui, invece, parliamo di una intera legislatura, dell’abbattimento del Senato e delle Province e di tutte (tutte) le altre riforme.
I suoi modi simpatici e disinvolti devono avere fatto presa anche sul capo dello Stato, che aveva previsto una situazione eccezionale breve, e si trova di fronte a una situazione eccezionale lunghissima. Ma forse anche lui aveva visto che Renzi ha un lasciapassare prezioso: può dimostrare di non essere stato votato. Non è l’on. Renzi o il senatore Renzi. È il dottor Renzi.
Fa una differenza grandissima, e Renzi in persona è ben cosciente di questo privilegio che a tutti gli altri non sembra bello ricordare (infatti non se ne parla mai). Renzi ne è cosciente al punto da esprimersi con la libera spregiudicatezza di chi sta fuori dal gioco, mentre sta dentro e al centro. Tipica è la frase con cui liquida il dissenso della leader di Cgil e del presidente di Confindustria: “Vuol dire che ce ne faremo una ragione”.
Vi immaginate se un regolare politico eletto si abbandonasse a tanto giovanile sarcasmo? Per capire è bene non illudersi che l’ondata fortissima di avversione alla politica prima o poi si esaurisce. Occorre un forte choc perché questo accada. Al momento non sembra né imminente né probabile. Cose enormi e non cancellabili (certo non adesso) hanno segnato e sfregiato la politica. E il colpo di grazia è avvenuto nello stabilire che “sono tutti uguali”, legittimo grido di esasperazione, ma anche salda barriera di protezione per i peggiori, che possono continuare (e continuano, salvo occasionale detenzione) nei propri affari poltico-privati proprio perché protetti dal discredito che ha colpito tutti. Tutti ma non gli estranei al sistema. Chi è più contrario al sistema di uno che non è mai stato eletto, ma è incaricato di portare a termine una lunga e operosa legislatura, mettendo al lavoro, con giovanile impeto, gli eletti sia d’accordo che non d’accordo? Persino nel suo partito, nessuno obietta. Se lo facesse avrebbe tutti contro, dentro e fuori dalla politica.
Renzi, il capo non eletto di tutto, lo sa benissimo. 
Una lucidissima controprova ci viene offerta da Grillo. Non appena i suoi liberi, nuovi, rispettabili e rispettati cittadini che si sono offerti per la candidatura a Cinque Stelle sono stati eletti, è come se fossero andati in convento. Devono tacere, obbedire e togliersi dalla testa di decidere. Decide il capo (non eletto) che sta battendosi per togliere dalla Costituzione la frase “senza vincolo di mandato”, e imporre una multa all’eletto che si ribella al capo non eletto.
Dunque in Parlamento (ci stanno dicendo anche i nuovi arrivati) non conta la coscienza. Conta l’obbedienza. E dunque il “vincolo di mandato” deve diventare un cappio. Se ti muovi per conto tuo, io stringo.
Renzi ha notato, con l’attenzione vorace di chi impara subito. Primo, forma un governo modesto (tanto il governo è lui, Renzi), con persone giovani, persino più giovani di lui, così è sicuro che non sdottorino con pretese di competenza e noiose storie di esperienza.
Secondo, si accerta che non sappiano la materia, in modo da evitare che pretendano di insegnartela. Terzo, fa pesare il fatto che ogni decisione grande o piccola, tocca a lui, non tanto e non solo perché lui è il capo, ma perché lui è esente. Nessuno lo ha eletto, e perciò è esente dalla squalifica che marchia i politici. Per ora funziona. Certo, non conosciamo ancora le conseguenze.
Il Fatto Quotidiano, 30 Marzo 2014

DELRIO E BERLUSCONI CRITICANO LE RIFORME DEL ROTTAMATORE

Riforme, Delrio: “Sarà un Senato di non eletti”. Berlusconi: “No testi blindati”

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio rilancia la rottamazione di Renzi: "Si va avanti per la nostra strada". Ma poi apre al taglio degli F35: "Necessaria revisione del programma". Il leader di Forza Italia: "Il premier fatica a mantenere le promesse"

Graziano Delrio e Matteo Renzi
Nel botta e risposta a distanza tutto interno al Pd tra il presidente del Senato Grasso e il premier Renzi in tema di riforme, si inserisce anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio. Ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa, l’ex sindaco di Reggio Emilia conferma la linea del governo, che proseguirà a prescindere dalle critiche sulla strada delle riforme, compresa quella del Senato. Per Delrio, infatti, in Italia c’è “un sistema barocco” il che “ovviamente non è un problema per i senatori ma per i cittadini”. Sulla rivoluzione pensata per Palazzo Madama, il sottosegretario ha precisato che l’esecutivo non sta “cercando di fare nulla di straordinariamente rivoluzionario, ma cerchiamo di dire che il Senato diventerà come in Germania“, ovvero il “rappresentante delle autonomie locali”. Di certo sarà un Senato di “non eletti” ha detto Delrio, che poi è tornato sulla questione dei super stipendi ai manager pubblici: “Ci devono essere regole uguali per tutti, chi lavora nelle aziende pubbliche deve avere un tetto”.
Anche sui criteri con cui vengono nominati i dirigenti l’ex presidente dell’Anci ha le idee chiare: “Sulle nomine i criteri li stiamo discutendo in queste ore con il ministro dell’Economia. Il criterio è comunque che non dobbiamo dismettere le nostre aziende – ha detto – Il Paese cresce e fa occupazione con le aziende di Stato. Vanno viste come un’enorme potenzialità”. Non poteva mancare un accenno alla nuova legge elettorale. Per quanto riguarda l’Italicum, a sentire Delrio, è “importante migliorarlo tutti assieme e senza che siano allungati tempi”. Il sottosegretario, poi, esprime il suo parere anche sull’affaire F35, aprendo di fatto a un taglio delle spese per i cacciabombardieri. “La mia opinione è che una revisione del programma sugli F35 sia necessaria. Il governo ridurrà di 3 miliardi le spese militari e credo che sia incluso anche il programma sugli F35″ ha sottolineato Delrio, che poi ha assicurato come la tassazione delle rendite finanziarie “non riguarderà Bot e i titoli distato” perché è “esclusa” l’intera categoria, precisando che la tassazione “si adeguerà al livello europeo e servirà a ridurre i costi del lavoro delle imprese. Ne beneficeranno le imprese“.
Sulla querelle inerente le riforme, arriva anche la presa di posizione di Silvio Berlusconi, che conferma l’interesse di Forza Italia a dialogare con il Pd e il governo, a patto però di non esser messi nelle condizioni di lavorare su proposte di leggi non correggibili. Lo dice chiaramente l’ex Cavaliere, in collegamento telefonico a Sassuolo per la ricandidatura di Luca Caselli a sindaco del centrodestra: ”Sulle riforme istituzionali noi ci siamo, ma solo se sono una cosa seria, né accetteremo testi blindati”. “Serve più potere al premier, anche riguardo la facoltà di sostituzione dei propri ministri” dice il leader di Forza Italia, che poi fa campagna elettorale: “In Italia oggi non c’è democrazia. La nostra missione è convincere il 50% dei votanti a premiare il nostro progetto per restituirla al Paese”.
L’ex premier, poi, torna sulla fine della sua esperienza governative e sulle modalità di nomina di chi è salito a Palazzo Chigi dopo di lui: “Ho finito la notte scorsa di scrivere un instant book in cui parlo di questocolpo di Stato, di questa fase in cui governa chi non è eletto” dice Berlusconi. Che poi non risparmia una frecciata al leader del Pd: “Lo scontro istituzionale in atto sul Senato e i dissapori nel Pd fanno sospettare che Renzi fatichi a mantenere le promesse, e questo potrebbe alimentare le delusioni di tanti el’antipolitica” sottolinea Berlusconi, secondo cui “serve l’elezione diretta del capo dello Stato e serve una legge elettorale al più presto perché presto potremmo essere chiamati a votare”. 
fonte: ilfattoquotidiano.it

domenica 30 marzo 2014

IL MONDO A COMPARTIMENTI STAGNI, IL DISSOLVIMENTO DELLE DEMOCRAZIE IN OLIGARCHIE E' ALL'OPERA.

Per Elysium






Ridete, ridete, poveri necrofori incaricati di trasportare il cadavere della sinistra al crematorio per poi spargerne le ceneri sulle rovine del nostro paese.
Avete notato come l'eternamente immusonita Garbo della CGIL si scompisci quando ha vicino i Gauleiter difensori del primato tedesco che impongono i sacrifici ai lavoratori italiani? Ricordate quanto si divertì al tavolo dei padroni con Monti, tra un astice e un "coeur d'ouvrier à la sauce suprême"?
Sapete perché irRenzi ride così, pensando alle sue riforme? Perché gli hanno promesso un posto su Elysium. Una di queste sere lo vengono a prendere con il carro trainato dai ciuchini.

Vedete, in contrasto, il teutonico Schultz apparentemente immune all'ilarità piddina che lo affianca? Non è che non comprenda il fine umorismo renziano che titilla i rigidi neuroni della sindacalessa, è che è troppo preso dalla serafica contemplazione mistica dell'ennesimo trionfo della volontà del suo paese, vero caso di psicosi latente applicata al concetto di nazione.
Ad ogni modo ce ne sarà anche per la sinistra tedesca, non dubitate. La sua idiozia ci ha regalato due nazismi e due guerre in un secolo esatto. Grazie, non dovevate, ma la prossima volta io tifo Morgenthau. Un bel ventennio di ritorno all'arcadia non vi farebbe male. E nei cofani delle Mercedes ci potete coltivare le patate.

Dice, ma sei antitedesca. Embé? Che loro sono filoitaliani, con i loro stramaledetti compiti a casa? Considerate più amichevole un black mamba o Schauble?
Sei antieuropea. Si, sempre di più e me ne vanto. L'ormai odioso "inno alla gioia" (de che?) mi da il vomito e me ne fotto se è del Ludovico Van. In culo pure a lui. Io rivoglio il mio paese e voglio uscire da questo incubo.
Ma il problema non è l'euro, come dice il direttore di un giornale, non il giornalaio sotto casa, ovvero Antonio Padellaro. No, il problema è proprio quello ma i sinistri di merda ci ridono sopra.
L'euro non è un problema nemmeno per Grillo. Ok, pazienza, si voterà Giorgia Meloni o la Lega, adesso vediamo. Peccato non poter votare Marine Le Pen. Adieu mon ami, je t'aime moi non plus.

Ma così non sei di sinistra. Ebbene, vi darò un dolore ma mi sono dimessa da sinistra. Sono l'esempio vivente che dall'essere di sinistra si può guarire.  Voi state pure a piangerci su, a rollarvi le Spinelli e a farvi i fogni lucidi con i lotofagi greci,  io sono già lontano, oltre. Se vi schiodate potete anche raggiungermi.

mercoledì 26 marzo 2014

L'IMPERO EUROPEO MODERNO GESTITO DALLA GERMANIA, IL GRANDE SOGNO DEL PANGERMANESIMO CHE SI AVVERA ATTRAVERSO IL CONTROLLO DELL'ECONOMIA.

L’Euro dei Nazi e il nostro


Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro.

Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta. Nasceva in questo modo l’idea di costituire un Grande Spazio di scambi commerciali europei di cui la Germania sarebbe stata il centro, come nel 1940 spiegava una nota della Cancelleria del Reich: «i grandi successi della Wehrmacht tedesca hanno creato i fondamenti per il Nuovo Ordine Economico Europeo sotto il dominio tedesco. La Germania, dopo aver concentrato negli ultimi anni le proprie forze principalmente sul riarmo militare, potrà seguire in futuro anche la strada della crescita economica e dello sviluppo delle proprie forze produttive su ampia base e una grossa crescita del tenore di vita ne sarà la conseguenza»[1].

Questo Nuovo Ordine Economico Europeo sarebbe però nato asimmetrico perché gli stati aderenti si sarebbero collocati in due diversi gironi d’importanza: un «cerchio interno» composto dalla Germania allora impinguata dell’Austria e dei Sudeti, dal Protettorato di Boemia e Moravia, dal Governatorato Generale polacco e da Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo in quanto nazioni razzialmente affini ma pure economicamente omogenee, tanto da potersi pensare   ad un unico livello dei prezzi, dei redditi e dei salari; ed un «cerchio esterno» in cui avrebbero gravitato Svezia, Svizzera e poi Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i PIGS, i paesi “maiali” già previsti!) con estensione all’Unione Sovietica (quando sconfitta), alla Turchia e all’Iran per proiettare il Grande Spazio fino al Pacifico e al Golfo Persico. Qui però prezzi e salari sarebbero stati mantenuti più bassi per favorire le esportazioni verso il cerchio interno. Il marco avrebbe dovuto diventare la moneta comune (in mancanza, «la fissazione di tassi di cambio stabili sarebbe assolutamente necessaria»), mentre sarebbe stata istituita una Banca Centrale Europea con sede a Vienna, che allora era tedesca, per il conteggio incrociato dei saldi tra i paesi associati «in cui, naturalmente, la Germania deve essere predominante».

Tanto progetto d’unificazione commerciale e monetaria europea non ha però mai visto la luce, travolto dal rovesciamento delle sorti della guerra dal 1942 in poi. Ma si può avanzare il legittimo sospetto che, dopo la costituzione della Unione Monetaria, la Germania post-1989 abbia ripreso con determinazione l’idea del Grande Spazio europeo partendo dall’adozione di una  politica commerciale lucidamente “mercantilistica” per compensare con l’esportazione all’estero il rigore fiscale e la moderazione salariale interne (e qualcuno ha scritto che «se non ci fossero state le robuste esportazioni verso l’Europa periferica, la Germania sarebbe scivolata dalla bassa crescita alla stagnazione»[2]). Ma il disavanzo commerciale che si veniva a formare in periferia, non più correggibile con le “svalutazioni competitive” di un tempo per il vincolo della moneta unica, come sarebbe stato coperto? A sostenere la capacità di spesa dei paesi “maiali” sono  intervenuti i prestiti di capitale dal centro per cui, se quelli s’indebitavano, questo otteneva il doppio vantaggio di guadagnare interessi sul denaro prestato assicurandosi contemporaneamente  un mercato di sbocco privilegiato perché privo di rischio di cambio.

Il gioco non è tuttavia senza difetto perché, mentre la periferia si deindustrializza per l’invasione delle merci straniere, il centro si fa partecipe della sua progressiva instabilità finanziaria  per quell’indebitamento crescente di cui è creditore. E così quando, e ai primi casi d’insolvibilità periferica (in Grecia, ma soprattutto a Cipro), il centro ha temuto che i propri crediti potessero venire “ripudiati”, è corso ai ripari richiedendone alla periferia il rientro, almeno in parte, coatto. Sta in questo il senso del Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance, sinteticamente noto come “Fiscal Compact”, approvato il 23 luglio 2012 dal Parlamento italiano. Con esso si sono a tal punto irrigiditi i vincoli di bilancio pubblico e di debito sovrano da poter essere giudicato, dopo il Trattato di Maastricht (1991) ed il Trattato di Lisbona (1999), come «il terzo atto della storia dell’euro che radicalizza in maniera inedita i principi neoliberisti che hanno caratterizzato fin dall’inizio la costruzione della moneta unica»[3] , anche a rischio di realizzare una forma di austerità perpetua che potrebbe fare esplodere l’Unione Monetaria Europea.

Il Fiscal Compact richiede all’articolo 3 che le spese statali vengano integralmente coperte da imposte e tasse (al netto di variazioni minimali emergenziali); in caso contrario è previsto «un meccanismo automatico di correzione» che di fatto priva i paesi colpevoli d’infrazione d’ogni potere decisionale proprio. L’articolo 4 impone invece il rientro del debito pubblico al 60% del PIL a partire dal 2015 (un impegno confermato dalla “Agenda Monti” del 24 dicembre 2013), il che significherebbe per l’Italia, che ha un debito pubblico del 134% su di un PIL di oltre 2000 miliardi di euro, un aggravio sul bilancio statale e per vent’anni di una quota di restituzione del debito di oltre 50 miliardi all’anno. Ma perché un simile provvedimento è stato introdotto? Chi l’ha pensato si è affidato a certe stime del Fondo Monetario Internazionale secondo le quali ad un punto di “contrazione fiscale” (più imposte e tasse e/o meno spesa pubblica) corrisponderebbe un calo del PIL dello 0,5%, e quindi una riduzione del rapporto Debito/PIL. Però all’inizio del 2013 lo stesso FMI ha convenuto che quella stima funziona soltanto in caso di crescita economica, perché in recessione la riduzione del PIL sale all’1,7%, aumentando (e non diminuendo) il rapporto Debito/PIL e quindi costringendo ad ulteriori interventi d’austerità che peggiorano il rapporto e così via seguitando[4] (come s’è visto in Italia con le manovre di riduzione del debito dei governi Monti e Letta che, invece di diminuirlo, lo hanno aumentato).

Ma se tutto questo succede in periferia, che capita al centro? Di fronte ad un eventuale collasso economico periferico, esso vedrebbe restringersi l’area privilegiata d’esportazione dovendo ricercare altri sbocchi fuori dalla zona-euro, dove però il rischio di cambio esiste. E qui, a fronte di un euro troppo rivalutato, la sostituzione delle esportazioni potrebbe non risultare “a somma zero”, come sta già succedendo alla Germania: calano le esportazioni verso i paesi UE, ma «Berlino sbaglierebbe davvero molto se d’ora in poi potesse pensasse di poter puntare tutte le sue carte solo sul resto del mondo. Con una domanda interna tendenzialmente debole e senza la vecchia Europa che torni a comprare il “made in Germany”, il suo attivo rischia di non correre più come quello di un tempo, sicché nel 2012 la somma del saldo complessivo UE ed extra-UE ha fatto segnare soltanto quota 185 miliardi, un livello ancora lontano, dopo cinque anni, dal record storico di 194 miliardi toccato nel 2007»[5].

Quale soluzione allora ci sarebbe per il centro se non quella di una svalutazione competitiva dell’euro per guadagnare maggiori quote di mercato? Ma questa decisione, favorevole agli industriali, danneggerebbe il sistema finanziario, che vedrebbe minacciato quell’euro forte difeso fino ad ora a spada tratta. Ecco perché non è da escludere l’alternativa di un arroccamento su di un euro del nord che abbandoni al proprio destino i paesi “maiali” per riciclare il centro come luogo privilegiato d’importazione di capitali invece che di esportazione di merci. E’ quest’ultima una soluzione praticabile? L’antagonismo tra finanza e industria è un tema ricorrente nella storia economica.



di Giorgio Gattei

Professore nell’Università di Bologna

[1] Cfr. P. Fonzi, La moneta nel Grande Spazio. La pianificazione nazionalsocialista della integrazione europea 1939-1945, Milano, 2012.

[2] S. Cesaratto e A. Stirati, Germany and the European and Global Crisis, in “Quaderni del Dipartimento di Economia politica dell’Università di Siena”, 2011, n. 607, p. 3.

[3] B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak, Cosa salverà l’Europa. Critiche  e proposte per un’economia diversa, minimum fax, Roma, 2013, p. 8.

[4] Cfr. O. Blanchard e D. Leigh, Growth forecast errors and  fiscal multipliers, in “IMF Working Paper”, 2013, n. 1.

[5] M. Fortis, Il made in Germany sta peggio, “Il Sole-24ore”, 17 maggio 2013.

 http://www.scenariglobali.it/economia/542-l-euro-dei-nazi-e-il-nostro.html

GRILLO E CASALEGGIO: NO ALLE RIFORME AUTORITARIE DI RENZI

Riforme, Grillo e Casaleggio firmano appello Zagrebelsky: “Svolta autoritaria”

I due cofondatori del Movimento 5 Stelle annunciano sul blog il loro sostegno al documento firmato da Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Salvatore Settis, Elisabetta Rubini e altri: "Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra costituzione"

Riforme, Grillo e Casaleggio firmano appello Zagrebelsky: “Svolta autoritaria”

Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio sottoscrivono l’appello di Zagrebelsky e altri contro le riforme. Sono una “svolta autoritaria” dicono i Cinque Stelle. “Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato”, dice l’appello ripreso sul blog.
 ”Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale (n. 1 del 2014), per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali”. Sui legge in nell’appello firmato tra gli altri da Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà e sottoscritto dai due cofondatori del Movimento 5 stelle. ”Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto” si legge. “Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione” osservano i firmatari che aggiungono: “Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato. Una democrazia plebiscitaria non è scritta nellanostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone”. Hanno sottoscritto il testo anche Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli, Gaetano Azzariti, Elisabetta Rubini, Alberto Vannucci, Simona Peverelli, Salvatore Settis, Costanza Firrao contro le riforme.

SGAMBETTO DELLA CEI AL PAPA SUL TEMA DELLA PEDOFILIA

Pedofilia, Cei: “Vescovo non è pubblico ufficiale, non ha l’obbligo di denuncia”

Sugli abusi su minori si consuma lo scontro finale tra Bagnasco e Bergoglio. Mentre Francesco nomina una vittima degli abusi nella neonata Commissione per la tutela dei minori, nel nuovo testo delle “Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici”, della Conferenza episcopale si legge: "Nell’ordinamento italiano il vescovo non ha l’obbligo giuridico - salvo il dovere morale - di denunciare"




Sgambetto della Cei al Papa sulla pedofilia. Mentre Francesco nomina una vittima degli abusi nella neonata Commissione per la tutela dei minori, i presuli italiani evidenziano la mancanza dell’obbligo giuridico per i vescovi di denunciare all’autorità giudiziaria civile casi di pedofilia. Nel nuovo testo delle “Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici”, approvato dalConsiglio episcopale permanente del gennaio scorso e reso pubblico oggi, dopo la clamorosa bocciaturadella precedente versione da parte della Congregazione per la dottrina della fede, la Cei si limita a riscrivere il periodo incriminato in questo modo: “Nell’ordinamento italiano il vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico – salvo il dovere morale di contribuire al bene comune – di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti oggetto delle presenti Linee guida”.
L’inciso sul dovere morale, unica aggiunta rispetto alla precedente versione datata 2012, suona come una frase beffa rivolta a Papa Francesco che, insieme al “G8” di cardinali che lo consigliano nel governo della Chiesa universale, ha messo la lotta alla pedofilia e al riciclaggio del denaro al primo punto delle riforme che ha già avviato nel suo primo anno di pontificato. Una lotta, quella alla pedofilia, come sottolineato più volte anche da Bergoglio, intrapresa con determinazione già da Benedetto XVI. Ma alla Cei targata Bagnasco evidentemente il magistero e i gesti di Papa Francesco non contano nulla. Ed è proprio sulla lotta alla pedofilia che si consuma lo scontro finale tra Bagnasco e Bergoglio che, come annunciato da ilfattoquotidiano.it, aprirà l’assemblea generale della Cei del maggio prossimo in Vaticano. Segno eloquente che il Papa ha ormai preso in mano il timone di un’istituzione, la Conferenza episcopale italiana, che non solo non ha saputo sintonizzarsi sulla “rivoluzione Bergoglio”, ma si è posta in aperta contrapposizione con il Pontefice latinoamericano. Sull’obbligo giuridico della denuncia alla magistratura civile dei casi di pedofilia la Congregazione per la dottrina della fede era stata chiarissima, nonostante la Cei abbia fatto finta di non comprendere i motivi della bocciatura delle precedenti linee guida.
L’ex Sant’Uffizio, infatti, aveva affermato che “l’abuso sessuale di minori non è solo un delitto canonico, ma anche un crimine perseguito dall’autorità civile. Sebbene i rapporti con le autorità civili differiscano nei diversi Paesi, tuttavia è importante cooperare con esse nell’ambito delle rispettive competenze. In particolare, va sempre dato seguito alle prescrizioni delle leggi civili per quanto riguarda il deferimento dei crimini alle autorità preposte, senza pregiudicare il foro interno sacramentale. Naturalmente, questa collaborazione non riguarda solo i casi di abusi commessi dai chierici, ma riguarda anche quei casi di abuso che coinvolgono il personale religioso o laico che opera nelle strutture ecclesiastiche”. Parole a dir poco eloquenti alle quali la Cei ha risposto in modo assolutamente beffardo. E ora Papa Francesco chiederà le dimissioni a Bagnasco?
twitter: @FrancescoGrana
fonte: ilfattoquotidiano.it