spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

domenica 11 agosto 2013

la guerra non è nella natura dell’uomo

Selvaggi, ma pacifici: i nostri antenati odiavano la guerra


Scritto il 11/8/13 



Primo tabù infranto: la guerra non è nella natura dell’uomo.

Secondo: a scatenarla non è la penuria, ma l’ingiustizia nella distribuzione delle risorse in tempi di abbondanza. Sono due ricercatori della finlandese Åbo Akademi, Douglas Fry e Patrick Söderberg, a fare a pezzi l’assunto cardinale del primo degli antropologi inglesi, Thomas Hobbes, per il quale la vita era «nasty, brutish and short». Il “brutish” era riferito a quell’incessante muovere guerra di tutti contro tutti che contraddistingueva lo “stato di natura”. Ebbene, tutto questo – su cui si basa l’egemonia planetaria anglosassone – è semplicemente falso. Lo affermano i due studiosi, il cui lavoro è apparso nell’ultimo numero di “Science” e su “Internazionale”. Fry e Söderberg hanno esaminato i comportamenti di 21 diverse tribù di cacciatori-raccoglitori tutt’ora nomadi, dislocate in tutti i continenti. Risultato: le aggressioni sono quasi sempre individuali e quasi mai organizzate. La guerra? Una pratica molto tarda, che quindi non può avere a che fare con lo “stato di natura” dell’essere umano.
Analizzando i 148 casi di aggressione letale, i due ricercatori hanno scoperto che nell’85% dei casi si tratta di aggressioni individuali per i più vari motivi; Primitivilo scontro organizzato tra gruppi sarebbe una evenienza molto rara e quasi specifica solo di alcune tribù. Lo studio conclude che la pratica della guerra sembrerebbe una acquisizione del comportamento umano molto recente, e non certo insita negli atteggiamenti “naturali” dell’uomo. Questo, osserva Pierluigi Fagan su “Megachip”, va in senso direttamene contrario ai paradigmi assodati di certa antropologia anglosassone. Apriti cielo, lo studio è stato bombardato da critiche: come si fa ad assimilare il comportamento degli attuali cacciatori-raccoglitori con quello dei nostri avi? “Indebito trasferimento di proprietà tra situazioni non omologabili”. Eppure, nel libro “Il mondo fino a ieri”, di Jared Diamond, che Fagan definisce «inutilmente voluminoso», l’autore «fa esattamente la stessa cosa per quasi 500 pagine». Ovvero: «Ci racconta di come le attuali tribù di cacciatori e raccoglitori» agiscono di fronte ad amici Jared Diamonde nemici, giustizia e guerra, allevamento dei figli, trattamento degli anziani, religione, lingue, salute.
«Diamond usa lo stesso procedimento retro-proiettivo. I cacciatori-raccoglitori o i sopravvissuti delle ancora poche e sempre più rade società tradizionali sono un frame del passato, uno squarcio su come eravamo prima dell’avvento delle società complesse», ma nessuno ha mosso a Diamond le accuse rivolte a Douglas Fry e Patrick Söderberg. Dunque: migliaia di anni fa si faceva abitualmente la guerra oppure no? E’ impossibile provarlo scientificamente, osserva Fagan, perché non disponiamo di evidenze certe. «Abbiamo qualche cranio spaccato, ma poteva ben essere una colluttazione tra due individui se non addirittura un rito post mortem per liberare la materia cerebrale ritenuta forse sede dello “spirito”, se non un orso cacciatore deluso dalla vuotezza del promettente recipiente trovato lì per caso anni dopo il decesso o un rito sacrificale». Certo, continua Fagan, non abbiamo mai trovato scheletri abbandonati in gran numero, come avrebbe dovuto essere nel caso di guerra campale. E poi, le armi: «Non così poi tante, e molto probabilmente necessarie alla caccia. Neanche le famose pitture murali riportano casi del genere e del resto son ben poche». Allora?
La prima cosa da considerare è di natura epistemologica: se non è “scientifico” concludere che la guerra non è insita nell’homo sapiens, non è “scientifico” neppure affermare il contrario, come invece fa Hobbes e – dopo di lui – tutti i legittimatori della violenza come bellica come “naturale” regolazione dei conflitti, esaurite le carte dellapolitica. «La scienza ci ha liberato dal dominio della superstizione, della religione, della cattiva metafisica e gliene rendiamo il dovuto merito», ammette Fagan. «Oggi, però, potremmo anche cautamente liberarci dall’obbligo di essere perfettamente scientifici per poter dire qualcosa», dovendo «cercare una nuova via della comprensione», senza con questo «tornare allo sciamanesimo oracolare». La storia del nostro più antico passato, continua Fagan, è uno di questi casi. Ed è un buco nero grave, perché dal “come eravamo” potremmo – per Douglas Fry e Patrick Söderbergdifferenza rispetto al “come siamo” – capire molte cose di noi, e di come siamo condizionati da ciò che cambia intorno a noi.
Questo problema della scientificità lo si sente soprattutto nelle scienze sociali: «I test di certa psicologia comportamentale sono pieni di decine di studenti universitari americani scelti come panel per rappresentare l’umanità intera, dove neanche il più scalcinato istituto di ricerche di marketing farebbe un errore di campionamento del genere». E’ come «desumere il comportamento degli scimpanzé in laboratorio o in un giardinetto con copertoni e finte liane», cioè «ben dopo che lo scimpanzé ha avuto prolungati contatti con umani». E il bello è che tutto questo si ricava “scientificamente” dal principio di indeterminazione di Heisenberg, che è nel cuore della meccanica quantistica, quindi della fisica più avanzata.
La confusione epistemica, aggiunge Fagan, si celebra nell’economia moderna, dove «dopo le leggi ferree e quelle bronzee è arrivata la dittatura del matematese». Ovvero: «La tua teoria non è matematizzabile?». Sorriso di commiserazione. «Allora non è scientifica». Così, «il campo del non conosciuto» viene declassato a semplice «sfondo indeterminato». Esempio, la cosmologia: «Le nostre conoscenze ci fanno pensare che l’Universo debba per forza ospitare una certa massa, dato che ci appaiono determinati fenomeni gravitazionali; poi andiamo a contare la materia visibile o intuibile (stelle, galassie, pianeti, polveri e ciotoli sparsi) e scopriamo che è il 4%». Ok, solo il 4%? E il resto? «Con scientifica precisione, veniamo rassicurati “è materia oscura”», almeno per il 26%. Buchi neri. «Mi ricorda di quando leggevo di biologia molecolare. Anche lì si presumeva che la parte di genoma attivo, quello che dà un qualche effetto fenotipico, fosse l’1,5%. E il resto? Veniva chiamato “rubbish Dna”, ovvero Dna-spazzatura». Ora, «vi Guerra tribalesembra plausibile che la natura trasmetta una roba che al 98,5% non serve a niente per miliardi di anni, di replicazione in replicazione?».
Come mai, si interroga Fagan, troviamo ancora tanta metafisica, religione e mitologia anche nella scienza? In questo incidono sicuramente i paradigmi della cultura occidentale, la sua ideologia, la cultura anglosassone e anche il famigerato capitalismo. E la guerra? «A supporto dell’idea che gli antichi piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori fossero reciprocamente aggressivi non si capisce proprio quali prove si possano portare». Il determinismo genetico non è ancora del tutto scomparso, ma è «palesemente scriteriato» far discendere comportamenti articolatamente complessi dalla scrittura genetica. «Lungo questa via, l’idea della guerra tra piccoli gruppi mobili spersi in grandi territori non ha proprio ragion d’essere. Non esisteva il movente, non esisteva la capacità organizzativa, troppo presente era la morte quotidiana per ogni possibile accidente per andarsela pure a cercare intenzionalmente». Quindi, «non si vede quale vantaggio questa attività complessa potesse arrecare, visto che era più di buonsenso spostarsi, se proprio si andava a cozzare contro un altro gruppo».
Quarantamila anni fa, ad esempio, la densità media del nostro subcontinente era tale che sarebbero occorsi giorni e giorni di marcia prima di incontrare un’altra tribù. Per immaginare gruppi dediti alla guerra – gruppi nomadi, o anche semi-nomadi o semi-stanziali nella lunga fase del Mesolitico – secondo Fagan «bisogna essere un anglosassone o un barbaro», categorie «che sono poi difficili da distinguere», e occorre «retro-proiettare la propria indole, come universale di tutta l’umanità e per giunta anche quella più antica». Un altro studio antropologico di “Science”, pubblicato dieci anni fa, spiegava che «alcuni studiosi ritengono che i conflitti di gruppo abbiano avuto origine in ambienti marginali, dove la gente lottava per conquistare le poche risorse». Secondo Raymond Kelly, collega di Joyce Marcus dell’università del Michigan (che studiò l’insorgere della guerra nelle società complesse dell’antico Messico, divise in clan e con a disposizione parecchie Evoluzionismorisorse) la violenza di gruppo era invece rara nelle società di cacciatori-raccoglitori non segmentate.
Il fattore cruciale per l’origine delle guerre sarebbe stata la divisione delle comunità in clan che agivano l’uno contro l’altro, e per di più – aggiunge Kelly – questo avveniva «quando l’ambienteera abbastanza ricco da potersi permettere di avere i propri vicini come nemici». Già, perché pare che quando le cose andavano male davvero, l’atteggiamento prevalente fosse invece quello della reciprocità e della condivisione tra vicini: «La violenza organizzata giungerebbe quindi dall’ineguaglianza dell’abbondanza mal redistribuita e non dalla scarsità». Quello che ha dato fastidio dello studio finlandese, conclude Fagan, non era certo l’infrazione epistemica che pure c’è stata, ma l’attacco al paradigma hobbesiano di uno “stato di natura” dipinto ad icona come “cattivo, brutale e breve”. Questo paradigma illumina il “come siamo” secondo la cultura dominante della modernità, quella anglosassone «dove il brutish svapora nel british».Il dogma oggi anglo-americano «deve per forza esser ripetuto, reiterato e Pierluigi Fagangiustificato di continuo per renderlo “fondativo”, così come richiesto da ogni mitologema».
Aggiunge Fagan: «Se non giustificata geneticamente o per altra via di dettato naturale, la guerra potrebbe risultare imbarazzante, sia perché evidentemente si proporrebbe come un portato della nostra incapacità primitiva a convivere in situazioni complesse, sia perché sarebbe una contro-evoluzione, ovvero un epifenomeno del disagio della civiltà e non una forma atavica dalla quale non potremo mai emanciparci». In entrambi i casi, la nostra “hybris” di occidentali-fine-della storia uscirebbe assai ridimensionata. A questo punto, il tutto potrebbe riassumersi in una “determinazione autobiografica della specie”, che sembra sempre più necessaria. «Noi viviamo sentendoci come giunti in cima ad un lungo percorso evolutivo: questo è forse legittimo, ma non è per niente legittimo sentirci come se fossimo arrivati alla fine dei tempi, alla fine del percorso», osserva Fagan. «Noi non siamo il raggiungimento di alcun telos. Il Sole si spegnerà deflagrando silenziosamente tra circa 4/5 miliardi anni, sono nove zeri. I tre zeri dei nostri ultimi 8.000 anni di società complesse non sono neanche i primi due giorni del primo anno di asilo alla scuola del “come si sta al mondo”. Relativizziamoci, e vediamo come migliorarci – che di strada da fare ce n’è parecchia».

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