Gino Giugni, un eroe democratico per salvare l’Italia
«Mi auguro, almeno, di non vedere più un partito socialista schierato con la destra». Sembrano scritte ieri queste parole di Gino Giugni, padre della più importante conquista nella storia democratica del paese: lo Statuto dei Lavoratori. Quello di Giugni – così simile a Stefano Rodotà per temperamento, trasparenza, sobrietà, fermezza e cultura politica – sarebbe il profilo perfetto per l’uomo chiamato, dal Quirinale, a guidare l’Italia nella spaventosa tempesta del 2013. «Il problema è che oggi questa figura non esiste», dice Paolo Barnard. Nostalgia Giugni: ovvero, il socialismo umanitario aggiornato al terzo millennio. La risposta democratica alla crisi, impugnando la dignità fondamentale della vera politica. «Sarà un po’ antico, ma l’unica via di salvezza resta il socialismo», è arrivato a confidare il più impervio degli intellettuali italiani, Guido Ceronetti, in un recente incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice fondato da Maurizio Pallante.
Avvocato e docente universitario cosmopolita, Giugni: dalla “Sapienza” di Roma agli atenei di Nanterre e Parigi, dalla Ucla di Los Angeles all’università di Buenos Aires, fino alla Columbia University di New York, quella che oggi smentisce clamorosamente Harvard: completamente falsa, basata su dati sballati e cifre clamorosamente sbagliate, la tesi in base alla quale il taglio del debito pubblico produce crescita. A differenza dei cervelli all’origine della catastrofe neomercantile, neoclassica e neoliberista che sta gettando l’umanità nell’abisso di sofferenze sociali inaudite, la mente economica di Gino Giugni antepone l’uomo al business: “Dal delitto di coalizione al diritto di sciopero” è il titolo della sua tesi di laurea del 1949, relatore Giuliano Vassalli. Un decina di anni dopo, il suo saggio “Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva” è uno dei primi lavori accademici a dare dignità e autonomia al diritto sindacale.
Il nome di Giugni, ricorda il “Sole 24 Ore”, è indissolubilmente legato allo Statuto dei Lavoratori: «A lui si deve infatti il documento che costituisce l’architrave del giuslavorismo in Italia». Maggio 1970, “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. «Quasi quarant’anni dopo, restano ancora testo di riferimento», almeno fino all’avvento bipartisan dei demolitori Fornero e Monti, insediati da Giorgio Napolitano con l’appoggio di Pd e Pdl per smantellare l’Italia su ordine della Troika al servizio della Germania e di Wall Street. Sembra di sognare, a rileggere oggi la biografia di un grande italiano come Giugni, nobile erede di una dinastia estinta. L’incarico di stendere lo Statuto dei Lavoratori risale al 1969, su iniziativa di Giacomo Brodolini. Lo Statuto permise di far entrare la Costituzione italiana nelle fabbriche, nel periodo dell’autunno caldo e della nascita della lotta armata.
«Fu un momento eccezionale, forse l’unico nella storia del diritto in Italia», dichiara Giugni ricordando quell’epoca. «Era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di “segretari del principe”, da tecnici al servizio dell’istituzione, ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale, elaborando una proposta politica del diritto». Parole che oggi sembrano estratte da un libro di fiabe. Pronunciate dall’uomo che è stato anche l’inventore materiale del Tfr, il “trattamento di fine rapporto” che riformò il sistema delle liquidazioni dei lavoratori, introducendo una sorta di sistema contributivo. Era troppo: non solo per il super-potere oligarchico occidentale, l’eterna destra economica, ma anche per i suoi involontari alleati, le Brigate Rosse. Che nel 1983 colpirono Giugni, sparandogli alle gambe.
Di fede socialista, Giugni fu scelto nel ’92 per salvare l’Italia dal naufragio della Prima Repubblica. Candidato al Quirinale dal Psi, gli fu preferito Scalfaro, grazie al clima di emergenza nazionale aggravato dalla strage di Capaci. Oggi il naufragio è ancora più grave, ma Gino Giugni non c’è più. Se n’è andato nel 2009, appena prima dello scempio definitivo del falso riformismo all’italiana. Non aveva smesso di sognare ad occhi aperti, il vecchio Giugni, dopo una vita intera dedicata alla democrazia nel lavoro: «Pensando al futuro – diceva – spero che il centrosinistra riesca a costruire un progetto politico riformista credibile, che possa portare davvero a una nuova stagione della politica italiana». Centrosinistra, speranza, credibilità, futuro: parole innocenti, pronunciate al buio, prima dell’irreparabile. Almeno, lo spettacolo del compagno Bersani che imita Crozza mentre sorregge “Goldman” Monti gli è stato risparmiato.
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