Harvard, i cialtroni del rigore: avevano sbagliato i conti
Rischia di essere lo scandalo accademico del secolo. Un colpo durissimo alle fondamenta della dottrina dell’austerità, che sostiene che tagliare il debito produca crescita. E’ vero esattamente il contrario, replica il Premio Nobel per l’Economia, Paul Krugman: si può avere crescita solo espandendo la spesa pubblica, cioè facendo esattamente l’opposto di quanto predicano la Germania e i tecnocrati dell’Eurozona che hanno commissariato mezza Europa, imponendo all’Italia il “macellaio” Monti. A crollare, improvvisamente, è lo studio con il quale Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, due celebri economisti di Harvard, considerati prestigiosi, sostenevano che si va in recessione quando il debito pubblico cresce fino al 90% del Pil. Quella semplice formula ha fatto il giro del mondo, influenzando il dibattito politico sull’economia, dagli Stati Uniti all’Europa, diventando un dogma. Peccato che sia falso, e che le cifre di Reinhart e Rogoff fossero disastrosamente sbagliate.
A smentire gli accademici di Harvard, cui si deve il sostegno tecnico alla catastrofica ideologia dell’austerity, provvede ora un gruppo di economisti dell’Università del Massachusetts-Amherst: hanno semplicemente rifatto i conti e, sulla base della stessa serie storica di Reinhart e Rogoff, dimostrano che i risultati sono opposti. E cioè: in media, storicamente, i paesi con un debito superiore al 90% non vanno affatto in recessione. Al contrario, crescono del 2,2%. Messi di fronte ai numeri, i due guru di Harvard ammettono l’errore e se la prendono persino con Excel, il programma di calcolo che hanno utilizzato. Un banale errore di codificazione, scrive Maurizio Ricci su “Repubblica” in un articolo ripreso da “Micromega”, avrebbe escluso completamente dai calcoli paesi come Australia, Austria, Belgio, Canada e Danimarca. «Un secondo errore, più scivoloso – aggiunge Ricci – è la decisione di escludere alcuni paesi, in alcuni anni». Ad esempio, nel periodo 1946-51, gli autori considerano solo l’ultimo per la Nuova Zelanda, che all’epoca, aveva un debito oltre il 90% del Pil ed era in recessione: «Avessero considerato tutti e cinque gli anni, avrebbero registrato una crescita media del 2,6%».
L’errore, se così lo si può chiamare, è inoltre amplificato dal sistema di ponderazione dei risultati utilizzato dagli autori. «Alle critiche – aggiunge Ricci – Reinhart e Rogoff hanno replicato con qualche imbarazzo, ammettendo l’errore di tabulazione e attribuendo l’esclusione dal calcolo di alcuni anni, per certi paesi, alla mancanza dei relativi dati al momento della stesura del loro saggio». Di fatto, si sbirciola la tesi in base alla quale l’austerity rilancia l’economia: come i fatti dimostrano, il rigore coincide con la devastazione economica. La polemica, destinata probabilmente a durare a lungo nei circoli accademici, ha già avuto l’effetto di ridimensionare la credibilità scientifica degli appelli all’austerità, dalle due parti dell’Atlantico. Specie in Europa, su spinta tedesca, l’austerity ha più un connotato politico-morale che economico. E i dubbi sull’efficacia della shock economy ormai sono crescenti. Tanto più che, nei mesi scorsi, era stato corroso dalla critica l’altro caposaldo scientifico della dottrina dell’austerità, cioè il lavoro di Alberto Alesina e Silvia Ardagna, braccio speculare delle tesi di Reinhart e Rogoff.
«Come i due economisti di Harvard sottolineavano che l’alto debito porta alla recessione, Alesina e Ardagna sostengono che l’austerità porta alla crescita», ricorda Ricci. «Anche qui, sono i conti ad essere entrati nel fuoco della critica: Alesina e Ardagna guardano al disavanzo pubblico, ma non distinguono fra i casi in cui il disavanzo si è ridotto per l’austerità e quelli in cui è sceso perchè l’economiaha tirato di più». Ci ha pensato, infine, il Fondo Monetario Internazionale a pubblicare uno studio in cui si liquida l’assurdità demenziale dell’“austerità espansiva” e si sottolinea che l’austerità, sotto forma di tagli alla spesa e aumenti di tasse, porta invece l’economia verso il collasso. «L’atteggiamento dell’Fmi – conclude Ricci – è un buon termometro del mutare degli atteggiamenti verso la politica del rigore». Ormai il Fondo Monetario è critico con i falchi dell’austerity: non rinuncia al risanamento di bilancio, ma ritiene che possa essere realizzato più lentamente, dando spazio a manovre per ravvivare la domanda, che alimenti una ripresa, la quale a sua volta riduce i disavanzi di bilancio. «E’ l’avviso che, con toni inusualmente aspri, gli economisti di Washington hanno appena recapitato al governo di Cameron a Londra. E, dietro il quale, molti hanno visto un attacco indiretto alle strategie dell’Eurozona: parlare a Londra perchè Berlino intenda».
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