spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

mercoledì 31 luglio 2013

LA SCHIAVITU' E I GRANDI IMPERI

Noi, oppressi dal debito: gli schiavi di Roma stavano meglio



Da una parte l’umanità e dall’altra il denaro – che ha vinto la sua guerra millenaria, e ora impone la sua legge dura e spietata.
Se Roma evitava almeno di spillare tasse agli schiavi, a spremere anche loro provvide il feudalesimo, cioè la condizione storica alla quale stiamo tornando, come “profetizzato” in tempi non sospetti da Giuliano Amato.

Di questo passo, con l’eclissi storica della sovranità, non ci saranno più diritti di nessun tipo: cittadini e popoli saranno semplicemente ridotti a chiedere l’elemosina, pronti anche a combattere le guerre di clan organizzate dei nuovi imperi.

Analisi storica suggestiva, firmata dall’economista greco Dimitris Kazakis: che, attraverso fonti eterodosse – da Tacito a Engels, fino a Hitler – “spiega” che il dramma nel quale stiamo sprofondando, in primis come Eurozona, è paragonabile soltanto al più spaventoso cataclisma della storia dell’Occidente, ovvero la caduta dell’Impero Romano.
Punto di partenza, proprio la decadenza di Roma, che era «una specie di Unione Europea dell’epoca»: mentre «trasformava i suoi sudditi in schiavi catenesmidollati», la società iniziava a disintegrarsi, a causa «della classe dirigente più spietata e parassitaria che il mondo avesse conosciuto fino ad allora». Addio alle virtù che avevano fatto la grandezza di Roma: abilità personale, coraggio, amore per la libertà e istinto democratico del popolo, «che considerava tutti gli affari di Stato come propri». Al loro posto c’era «un parassitismo senza precedenti», mentre la folla «riusciva a sopravvivere grazie a opere di carità nel mezzo di guerre civili tra le fazioni dei governanti». Non era la frusta che soggiogava gli schiavi, i plebei e la miriade dei proletari, non era il carnefice che li costringeva a vivere una vita servile sotto i piedi dei signori. «Dove non c’è coraggio e amore per la libertà i tiranni non hanno bisogno della frusta, né del carnefice: il posto della frusta lo presero le insopportabili tasse e il debito usurario», scrive Kazakis in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”.
«Per sfuggire al peso insopportabile delle tasse, molti piccoli agricoltori preferivano vendersi come schiavi, in quanto questi ultimi non pagavano tasse e la libertà dall’esattore era più dolce come motivazione rispetto a quella della libertà personale», spiega Kazakis, che in Grecia è oggi segretario politico dell’Epam, il “Fronte Popolare Unitario”. Nel primo periodo della Repubblica Romana, continua l’economista, la servitù per debiti (“nexum”) era accettata: il mutuatario poneva se stesso o un membro della sua famiglia come garanzia nel caso in cui non potesse pagare il debito. Ma l’usura era inaccettabile, così come il maltrattamento dei debitori insolventi: fu addirittura abrogato per legge nel 326 avanti Cristo, come ricorda Tito Livio. «Tuttavia, man mano che l’usura si trasformò in una delle attività d’arricchimento preferite dei governanti dell’antica Roma, i tribunaliDimitris Kazakisemettevano delle sentenze che trasformavano i debitori che non potevano pagare i loro debiti in schiavi del creditore».
Da subito, aggiunge Kazakis, il peso del debito cominciò a cadere sugli strati plebei dell’antica Roma: «Quando nel 133 a.C. i fratelli Gracchi e i loro seguaci cercarono di “tagliare” i debiti dei plebei, la classe dirigente che controllava il Senato rispose con la violenza, uccidendo, mutilando e bruciando i loro nemici in una aperta guerra civile». L’ultimo tentativo organizzato per farla finita con la morsa del debito per i plebei fu la cosiddetta cospirazione di Catilina nel 63-62 avanti Cristo: «Chiunque avesse avuto il coraggio solo di parlare di cancellazione dei debiti faceva una brutta fine, mentre alle reazioni delle masse seguivano sempre stragi e guerre». Nei suoi “Annali”, lo storico romano Tacito scrive che «la maledizione dell’usura era in effetti vecchia come Roma e costituiva sempre la ragione più comune per la rivolta e la discordia».
Poi, nel quinto secolo dopo Cristo, l’economia di Roma era ormai crollata. «Sollevazioni frequenti e guerre civili, così come gli innumerevoli affamati che si accumulavano nelle città, costringevano molti a fuggire verso la campagna». E quando il numero degli schiavi che non pagavano le imposte imperiali proliferò al punto che le casse dello Stato «non erano più in grado di raccogliere ciò che era necessario per finanziare lusso, parassitismo e guerre della cricca imperiale», venne messo a punto «un nuovo sistema di schiavitù». Prima mossa: «Fu vietato vendere se stessi come schiavi». Conseguenza: «Si moltiplicarono i debitori». E così il debitore, «legato per forza ormai al creditore, era molto spesso costretto a lavorare un pezzo di terra cedutogli (dal prestatore-signore) affinché ripagasse il debito». Passaggio chiave: «Così lo schiavo diventò un servo della gleba che ora poteva essere tassato, mentre l’opera sua e quella della sua famiglia così come il prodotto della terra appartenevano al signore, fino al pagamento del debito». Ma dato che il signore controllava il debito, il servo era certo che Servi della glebanon avrebbe mai potuto ripagarlo – né lui, né i suoi figli, né i figli dei suoi figli.
«Con questo sistema della servitù del “debito del peone”, come anche si chiama, entrò nella scena storica il feudalesimo: il piccolo proprietario terriero e artigiano di un tempo, che dominava la scena nella vecchiademocrazia di Roma, era stato sostituito dal servo dello Stato e del sovrano, avendo perso tutto, insieme alla voglia di vivere». Il nuovo schiavo, aggiunge Kazakis, «era diventato il mendicante dei potenti, e i mendicanti non esercitano né rivendicano diritti: semplicemente, sopravvivono grazie alla magnanimità del potente e del potere. Ecco perché le popolazioni che nella storia sono state ridotte allo stato di mendicante, non sono mai state in grado di niente di meglio che venire alle mani, saccheggiare in stragi reciproche e servire i tiranni». Con la società imperiale romana nel declino più assoluto, senza forze sociali disponibili a rovesciare il regime in bancarotta, non era rimasto altro che le incursioni di orde barbariche. Scrisse giustamente Friedrich Engels: «Ciò che di vivo e di vivificante che i tedeschi hanno dato al mondo romano era barbaro». In effetti, «solo i barbari possono ridare vita ad un mondo che giace tra le braccia di una civiltà morta».
Molti anni dopo citò Engels un altro socialista tedesco, Paul Lensch, sostenendo la partecipazione alla guerra mondiale causata dal Kaiser tedesco: «Ci chiamano barbari, molto bene! I nostri antenati erano ancora barbari quando hanno reso un grande servizio all’umanità, frantumando l’Impero Romano a pezzi e aprendo la strada allo sviluppo storico che sembrava trovarsi in una situazione di stallo, uno sbocco di grande significato storico per tutto il mondo». E cosa ha permesso alla «razza tedesca» di «svolgere la sua missione nella storia del mondo», infondendo «nuova vita» in Europa? «Quello che ha proclamato Engels: esclusivamente la loro brutalità». In piena Prima Guerra Mondiale, osserva Kazakis, i socialdemocratici tedeschi concepivano la guerra «come una battaglia per Paul Lenschl’affermarsi della civiltà globale», schierandosi «a favore di chi sembrava ai loro occhi come il meno brutale».
Su un punto, dice Kazakis, i tedeschi avevano ragione: nei momenti più cruciali della storia del mondo, hanno potuto «ricattare gli sviluppi globali con il quasi esclusivo uso della loro più sfacciata barbarie». Ieri il nazismo, oggi il super-potere oligarchico di Bruxelles, agli ordini di Berlino. Leva strategica: l’Eurozona, che costringe la federazione europea ad unacrisi senza precedenti, facendole vivere «giorni simili a quelli dell’ultima Roma». E’ un fatto: «Il tremendo declino che copre tutto come cenere, uccide tutto ciò che è vivo nelle società sviluppate degli Stati membri». Un’atmosfera soffocante, «dove tutto è deciso da qualche parte lontana, inaccessibile, con i popoli a perdere anche la voglia di vivere: se non sono già convertiti, certamente si trasformano in subordinati, in miseri sudditi, capaci solo di chiedere l’elemosina».
L’assolutismo, per come si è ora stabilito in Europa, «può confrontarsi storicamente solo con la decadenza di Roma». Ovvero: «I popoli europei perdono lentamente la loro identità, le loro radici e la loro storia per divenire misere ombre dei loro lontani se stessi, uniformi cliché di consumatori e cittadini del mercato, capaci solo di sopravvivere in un mondo virtuale che viene creato quasi esclusivamente da società di marketing e sinistre autorità sovranazionali». E ancora: «L’abiura della nazione, l’alto tradimento, il collaborazionismo che una volta i popoli, le nazioni e gli Stati consideravano come dei peccati estremi, oggi vengono considerati come pratica comune, che non scandalizza più di tanto, né a destra né a sinistra: si tratta del prodotto necessario per la catalisi dello Stato nazionale e l’imposizione di un supposto “internazionalismo”, che in pratica e come ideologia coincide con la prevalenza di frontiere aperte, Hitlermercati aperti e società aperte alla promiscuità dei capitali a livello globale».
Tutto ora ha il suo valore di scambio nei mercati dei capitali nel mondo, «anche l’onore personale e la dignità». Continua Karakis: «Non ci sono diritti e quindi non ci sono rivendicazioni. Non c’è bisogno di lotte. C’è solo la legge del pugno e del potere». E in un mondo in cui non sono più riconosciuti i diritti delle persone, non è riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e alla sovranità democratica, «allora non ha senso neanche il tradimento: ciò che i collaborazionisti presentano oggi come un atteggiamento responsabile, la sinistra apparentemente rivoluzionaria giustifica con il familiare “è il capitalismo, stupido!”». La storia ha dimostrato che le nazioni che hanno deposto le armi senza essere state assolutamente costrette, preferiscono in seguito accettare le peggiori umiliazioni e fare le concessioni più umilianti, piuttosto che lottare per cercare di cambiare il loro destino. Chi l’ha detto? Adolf Hitler. Kazalis lo cita senza imbarazzo: «Un vincitore prudente, quando possibile, non vorrà far valere i suoi diritti sui vinti tranne che a rate. Può allora essere sicuro che una nazione che ha perso la sua forza di carattere, e tale è ogni nazione che si sottomette volontariamente, non troverà alcuna ragione sufficiente in ciascuna di queste oppressioni dettagliate per ricorrere alle armi ancora una volta».
Così, scriveva letteralmente il “führer”, più i ricatti vengono accettati con piacere, e meno sembrerà legittimo agli occhi del popolo il tentativo di difendersi da una nuova oppressione, apparentemente episodica, dopo anni di passività. La caduta di Cartagine è l’emblema dell’auto-dissoluzione di un popolo, e lo stesso Clausewitz sostiene che «la macchia di una vile sottomissione non sarà mai cancellata». Il veleno della resa «sarà paralizzante e indebolirà la volontà delle generazioni future», producendo nuova schiavitù. Da Hitler a Giuliano Amato il salto è notevole, ma Karazis cita proprio l’ex premier socialista italiano – allora vicepresidente della Costituente Europea – per replicare al governo di Atene, ridotto a obbedire ai diktat della Troika sacrificando il popolo greco. Kazakis cita un’intervista di Amato realizzata da “La Stampa” il 3 luglio del 2000. Amato è più che esplicito: «In Europa si ha la necessità di agire con i “come se” – come se fosse cosa di poco conto ciò che si sta cercando per ottenere molto, come se Amatogli Stati rimangano sovrani per convincerli a rinunciare alla loro sovranità».
Un’ammissione: l’Unione Europea mente ai popoli e ricorre all’inganno. «La Commissione di Bruxelles, ad esempio, dovrebbe agire come se fosse uno strumento tecnico, per essere in grado di funzionare come un governo. E così via, per mascherare e nascondere». E attenzione: «La sovranità perduta a livello nazionale non va a qualche nuova entità», ma viene semplicemente «consegnata a delle entità senza volto: la Nato, le Nazioni Unite e alla fine l’Unione Europea». La nuova entità «è senza volto», e quelli che ne hanno in mano le redini «non si possono vedere, né sono eletti». I federalisti – aggiunge Amato – credono ancora che, rimuovendo dai loro Stati-nazione la sovranità, essa si trasferirà ad un livello superiore. «Questo è il loro errore. La verità è che il trasferimento della sovranità la farà evaporare, scomparire». Al posto degli Stati sovrani ci sarà «una moltitudine di autorità a diversi livelli di collegialità, ognuna delle quali sarà a capo di diversi interessi organizzati di persone: livelli che includono campi non specificati di autorità, che condividono il potere con altre autorità».
Oggi, conlcude Kazakis, il debito e le selvagge politiche di adattamento sono i metodi di base – al posto della frusta, della carota e della guerra aperta – con i quali si tenta di imporre ai popoli questa logica di obbedienza volontaria. Lo scenario è tetro: siamo passati «dall’era dei movimenti popolari, operai e sociali che avevano come punto di partenza la difesa dei loro diritti», ad una situazione «di popolazioni senza volto», alla mercé dei mercati. Il governo greco agli ordini di Bruxelles? In confronto, «lo psicopatico killer con la sega elettrica sembra una caricatura». Atene sostiene che, fuori dall’euro, «saremmo come l’Egitto»? Fosse vero, replica Kazalis: almeno, il Cairo ha «cancellato i debiti di Mubarak». Un augurio che suona come una minaccia: il governo di Atene può sperare «che non si svegli il Greco», perché un giorno la furia del popolo potrebbe travolgere l’oligarchia che ha ridotto un paese di cittadini al rango di servi della gleba, cioè peggio degli schiavi dell’Impero Romano

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