spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

venerdì 26 luglio 2013

UN SUICIDIO ASSISTITO, UNA LUCIDA E SINTETICA CRONOSTORIA

C’era una volta il Pd




"Chi ha suicidato il Pd" e "Democrat", due libri sulla storia recente di un partito morto con la congiura contro Prodi al Colle ma forse mai effettivamente nato per le innumerevoli divisioni interne. Ora il governo Letta e l'inciucio con B. Una spirale autodistruttiva che sembra senza fine.


di Giacomo Russo Spena
Quando si pensa che il Pd abbia toccato il fondo e raggiunto il “punto di non ritorno”, subito dopo sorprende. Ancora. Ovviamente, in peggio. Dopo la “carica dei 101” che durante le elezioni per il Presidente della Repubblica hanno impallinato il fondatore Romano Prodi e inflitto un colpo mortale al centrosinistra, ecco il governo-inciucio con Silvio Berlusconi, il giaguaro da smacchiare, la sospensione dei lavori alle Camere, la votazione pro-F35, il no all’ineleggibilità del Caimano, il salvataggio del ministro Angelino Alfano sul caso kazako e tanto altro. Troppo. 

Allora è lecito domandarsi: quante volte si è suicidato il partito democratico? Però è lì, ancora in vita. Sembra. Con un suo uomo, Enrico Letta, al governo e con un forte dibattito interno. O meglio dire di “balcanizzazione” tra le varie correnti. Gli OccupyPD lanciano su twitter  l’hashtag #Mobbasta, molti elettori si sentono giustamente traditi: in nome del voto utile contro B. lo avevano sostenuto, ora si ritrovano un esecutivo proprio con il tanto odiato “nemico”. A braccetto, come due novelli sposini.
Il Pd è riformabile e può acquisire accenti socialdemocratici (come vorrebbero ad esempio il deputato Pippo Civati o lo stesso ex ministro Fabrizio Barca) o non può rappresentare nessun tipo di cambiamento in Italia? E’ in grado di promuovere una politica capace di rafforzare Welfare – con un nuovo New Deal per dirla alla Luciano Gallino – diffondere diritti civili e sociali e nello stesso momento riformare il Paese senza cadere nella trappola dell’austerity? E’ una vera alternativa al Cavaliere? Due libri si interrogano sul tema: “Chi ha suicidato il Pd” del giornalista de L’EspressoAlessandro Gilioli (Imprimatur editore, 123 pp, 9 euro) e “Democrat” di Massimiliano Amato (CentoAutori, 173 pp, 15 euro). In vista del congresso due letture frizzanti che ricostruiscono l’agonia di questo partito tafazziano che dalla nascita, 2007, ad oggi è riuscito ad inanellare molte sconfitte e pochissime vittorie. 

Gilioli, nel suo testo, imputa a 10 personalità la responsabilità del fallimento: Bersani, Veltroni, D’Alema, Finocchiaro, Lusi, Fioroni solo per citarne alcuni. Analizza le loro storie, i loro errori. Per domandarsi successivamente: “Deciderà il lettore, alla fine di queste pagine, se e chi è il colpevole; non tanto per un’assoluzione o una condanna quanto per capire oggi se ‘un altro Pd è possibile’ – nei metodi e nelle pratiche prima ancora nelle scelte politiche – o se la spirale autodistruttiva è destinata a non finire mai”. La postfazione è scritta dal deputato Pippo Civati, il quale sta intraprendendo una battaglia quasi solitaria (con lui pochi altri come Laura Puppato, Lorenza Ricchiuti e Walter Tocci) per far virare a sinistra il partito. Sganciandolo dall’inciucio con Berlusconi e da quell’ossessivo inseguimento ai “moderati”. 

L’incipit di “Chi ha suicidato il Pd” è tutto per Pierluigi Bersani, colui che è riuscito alle scorse elezioni a sbagliare un rigore a porta vuota. Forte della larga vittoria alle primarie contro Matteo Renzi, aveva la vittoria in tasca. Solo Crozza scherzava su una possibile sconfitta. I sondaggi davano il Pd molto sopra a Pdl e M5S. Poi il fattore Tafazzi… Berlusconi impegnato in una campagna tutta contro l’Europa e le tasse, Grillo riempieva le piazze e raccoglieva il diffuso dissenso del popolo, intanto Bersani intraprendeva un incredibile tira e molla con Monti: continuità o discontinuità col governo dei tecnici? La coalizione Bene Comune una mediazione perenne tra i Fioroni e i Vendola, nella Carta d’intenti si registravano due-tre supercazzole degne del miglior Tognazzi come l’accettazione del fiscal compact europeo e l’eventuale alleanza coi centristi dopo il voto. Né carne né pesce. Il Pd diviso su tutto, come solito. Bersani riusciva nell’impresa di non vincere. Il suo capolavoro culminava con l’elezione per il Presidente della Repubblica. Il sostegno al giurista Stefano Rodotà, voluto da Grillo, avrebbe forse aperto ad un eventuale esecutivo. Forse, chissà. Il Pd andava sul sicuro rispolverando il sindacalista Cisl Franco Marini (sic!) e l’inciucio con B. Per l’opposizione dei renziani e della sinistra del partito, Marini non passava.
Si decideva allora il nome di Prodi, in missione per l’Onu in Mali. Il solito Salvatore: il Professore al Colle e nessun dialogo con il Cavaliere. Sel confluiva nel voto a Prodi ma 101 deputati del Pd facevano fuori anche il fondatore del partito. Per Massimiliano Amato è il “parricidio” per eccellenza. La fine di una fase. Di un’era. I democratici a quel punto si appellavano a Napolitano che imponeva, come solito, le larghe intese. Il governo con Berlusconi, l’inciucio. Fine della storia. In nome della governabilità si ingoia ora qualsiasi rospo, anche che Ruby sia l’effettiva nipote di Mubarak. Un governo Letta che dovrebbe attuare riforme e promuovere una nuova legge elettorale, dopo 3 mesi le misure economiche tutte rimandate a settembre e persiste il Porcellum. In balia degli eventi. Però si vuole in compenso picconare la Costituzione.

Prima di Bersani – sentenzia Gilioli – come non ricordare le responsabilità di Massimo D’Alema e la sua attitudine a dialogare con chi è alla sua destra (in primis la Bicamerale che resuscitò Berlusconi) o Walter Veltroni, l’uomo del ma anche: “L’equivoco Pd nasce con lui, il grande contenitore dove dovrebbero stare insieme liberisti e socialisti, grande finanza e Occupy, i fan di Marchionne e gli operai della Fiom, ambientalisti e sviluppisti”. Quando, come diceva Anna Politkovskaja, “non è tempo di idee tiepide”.

L’autore di “Democrat”, Amato, la pensa in maniera simile. Sancisce nel 19 aprile 2013 (la congiura contro Prodi) il decesso del Pd ma considera il partito forse mai nato. “Quanto è avvenuto in quelle trenta ore tra il primo e il quarto scrutinio per il Quirinale è qualcosa di largamente annunciato, e chiama purtroppo in causa l’estrema labilità del patto fondativo. La guerra tra bande, l’assenza di coesione e solidarietà sono frutto dell’eterna e irrisolta competizione interna tra storie e tradizioni diverse e visioni divergenti che con somma presunzione mista ad un pizzico di cinismo si è pensato potessero convincere ed amalgamarsi”.

E ora che fare? Amato consiglia al partito di riscoprire i valori della sinistra, del lavoro. Per questo guarda con interesse alle future mosse di Barca. Ma non per il governo. Lì, per salvare il partito e finalmente vincere, vorrebbe in maniera strumentale e tattica il sindaco di Firenze Renzi. L’uomo che più sta minando alle fondamenta il governo Letta perché bramoso di nuove elezioni e di chiudere la fase degli apparati. Renzi al governo, Barca segretario. Possibili scenari? Non è lecito saperlo. Di certo c’è solo un governissimo sostenuto da Berlusconi insieme a Monti e Pd. Dallo smacchiamo all’alleanza. Un incubo. Il peggiore.

* * *

IL PARTITO FAI DA TE E LO SPIRITO DELLA FRONTIERA
Un estratto da "Democrat" di Massimiliano Amato (CentoAutori)

«La sensazione più strana che si prova quando si osserva il dibattito nel Pd – ha scritto sul suo blog Peppino Caldarola – è che hanno ragione tutti. Hanno ragione quelli del partito leggero perché gli elettori sono ormai molto mobili, hanno ragione quelli del partito pesante perché senza le sezioni non si vincono le elezioni. Ha ragione Veltroni a dire che erano nel torto quelli che polemizzavano con lui quando voleva superare l’Internazionale socialista, e hanno ragione quelli di sinistra che temono che si stia perdendo la nozione stessa di sinistra. Si potrebbe continuare. Come è possibile che abbiano ragione tutti? È possibile perché il Pd è il primo partito fai da te. Ti alzi una mattina e te lo fai come ti piace anche se è diverso da quello che ti piaceva il giorno prima». 

Il “partito fai da te” è l’estrema declinazione del “partito della nazione”: il contenitore di umori, storie, culture e tradizioni tra loro differenti che abbiamo cercato di descrivere in queste pagine. Ma anche l’aggregato di correnti che costringe il segretario Epifani a nominare, per pochi mesi di reggenza, una segreteria extra large. Quindici membri: uno per ogni componente, in maniera da non scontentare nessuno».

Per forza d’inerzia e non per un atto di volontà, sul piano organizzativo il Pd sembra aver adottato su scala nazionale il modello sperimentato nel Mezzogiorno. «Da un lato leader mediatici e dall’altro notabili territoriali sono tenuti insieme da una sorta di patto di franchising, in cui i primi si occupano della cura del brand e i secondi dell’organizzazione del consenso», ha scritto sul “Globalist” il senatore Walter Tocci, presidente del Centro per la Riforma dello Stato, «I partiti in franchising sono adatti ad attrarre clienti, non i cittadini che vogliono partecipare alle scelte; sono concentrati sul mantenimento dello scambio locale e quindi rimangono indifferenti all’elaborazione di programmi di governo nazionali; sono forme notabilari e perciò preposte al mantenimento di un ceto politico, ma non alla selezione di una classe dirigente».

Così era organizzata la Democrazia cristiana, non il Pci. Ci può anche stare. A patto, però, che si riconosca che, su questo terreno, Letta, Franceschini, Bindi, Renzi, Fioroni e tutti gli altri ex democristiani siano, culturalmente, cinquant’anni avanti rispetto ai loro compagni ex berlingueriani, partiti per conquistare il cielo e ritrovatisi a rotolarsi nella polvere della sconfitta.

Massimo D’Alema se ne lamenta: «Il governo ai democristiani, il partito ai socialisti e io sto fuori». Analisi ineccepibile, ma ancora una volta manca qualsiasi tentativo di autocritica. Nessun mea culpa, insomma. E allora, posto che la partita del potere sembra essere preclusa all’attuale generazione di dirigenti della sinistra, come si può pensare di organizzare il partito, non fosse altro per evitare la condanna all’irrilevanza?

Ai “compagni di scuola” potrebbe venire in soccorso la riflessione di Barca. Ammesso che conservino ancora antenne in grado di intercettarla. Riflessione che può essere tranquillamente innestata sull’analisi di Tocci, il quale riesce a trovare una mission plausibile su cui costruire il futuro: «Un’idea di partito è pur sempre un problema storico. Non è mai un modello organizzativo, ma diventa realtà solo se afferra le questioni storiche scoperchiate dalla crisi e riesce a proiettarle nell’avvenire. Non viviamo tempi normali. È davanti a noi la crisi europea. Si vuole oscurare il fallimento di Maastricht raccontando la storiella popolare dei paesi spreconi del sud che non vogliono rimettere i propri debiti. La
doppia semantica della parola Schuld, che significa sia debito sia colpa, spiega lo spessore culturale con cui le élites tedesche coniugano economicismo e “populismo”, a conferma di quanto poco esplicativa sia questa parola che indica fenomeni molto diversi tra loro. Contro lo sciagurato “populismo” di casa nostra, Monti ha finito per assecondare quello tedesco che riduce il problema europeo ad un disciplinamento della colpa meridionale, secondo gli stereotipi molto in voga nei giornali popolari tipo Bild. Invece di richiamare l’attenzione su chi ci guadagna dalla crisi, le classi dirigenti italiane hanno accettato l’argomento antropologico di una carenza soggettiva dei popoli meridionali. La differenza mediterranea diventa un difetto da rimuovere per adeguarsi allo standard nordico, sembra non essere più parte integrante dell’ideale europeo. 

È tempo che i paesi mediterranei e in primis l’Italia rivolgano un discorso nuovo al vecchio continente. Non solo per chiedere deroghe alle regole di contabilità, ma per un ripensamento geopolitico del progetto europeo. Venti anni fa la transizione post comunista rese prioritario l’ampliamento verso i paesi dell’est. Quella del dopo muro è stata un’Europa senza Mediterraneo. Le rivoluzioni arabe, o come vogliamo chiamarle, avrebbero meritato la stessa attenzione spingendo il vecchio continente a volgersi verso il suo antico mare, dove si collocheranno le principali questioni del secolo appena cominciato: la questione energetica e ambientale; la creazione di lavoro che può venire solo dalla cooperazione tra le sature economie del nord e la crescita di quelle del sud; la migrazione dei popoli che mette alla prova la civiltà europea tra l’apertura ad un nuovo meticciato o la chiusura nei vecchi recinti; i focolai della guerra permanente e i conflitti religiosi più gravi del nostro tempo. 

L’Europa di Maastricht ha la testa altrove, è chiusa a revisionare i conti e si riduce ad una vasta periferia intorno ad un unico centro tedesco. L’Italia è il paese più svantaggiato da questa forma geopolitica e sarebbe quello più interessato a riformarla. Dovrebbe essere alla testa di un’alleanza tra i paesi rivieraschi per spostare il baricentro europeo verso il Mediterraneo. Non è un’ipotesi tra le altre, è l’unica possibilità per mantenere unita la nazione italiana nel XXI secolo. La questione settentrionale e la questione meridionale si sono cronicizzate perché lo Stato unitario non è più in grado di contenerle. Possono essere curate solo nel contesto più ampio di una nuova centralità euro mediterranea dell’Italia. Questo è il compito di una nuova sinistra italiana che si candida a governare il Paese».

Per un bel po’ ancora saremo dentro quello che è uno dei periodi più bui della storia del Paese. Una Convenzione di trentacinque saggi è incaricata di rifare il look alla Repubblica, per consentire alle sue istituzioni di lavorare meglio. Nel frattempo, qualche speranza va accesa sul terreno della crescita e dello sviluppo. Nata sotto pessimi auspici, la XVII legislatura repubblicana può cambiare pelle e natura, trasformandosi in una legislatura ri-costituente. Per ri-costituire il sistema, però, c’è bisogno di quello che gli americani chiamerebbero “lo spirito della frontiera”. Espressione che può ben definire il significato più profondo del termine “riformismo”. Come ripeteva spesso Pietro Nenni, citando Kant: «fai quel che devi, accada quel che può». Il Pd ha l’obbligo di provarci.

(22 luglio 2013)

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