spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

martedì 10 settembre 2013

LA RI-MIGRAZIONE DELLA CALABRIA E NON SOLO

Settembre, la Calabria torna a migrare


di MARIA FRANCO




Nave da crociera sullo StrettoNave da crociera sullo Stretto
Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare… (D’Annunzio, I pastori)
La ri-migrazione dei calabresi che tornano d’estate nella loro regione inizia subito dopo ferragosto, per diventare massiccia una diecina di giorni dopo e concludersi, ma solo per pochissimi, all’inizio di settembre, quando in alcuni quartieri e paeselli restano solo gli abitanti stabili.
Quando i migranti locali, tra luglio e agosto, arrivano dal Nord o da altre nazioni, si dice che vengono in vacanza, ma è solo una formula linguistico-sociale convenzionale.
Certo, vacanza è tante cose: va dal semplice riposo, dalla possibilità di ritmi più lenti e gesti più morbidi all’andare molto lontano, dando al proprio corpo, alla propria mente spazi-tempi talmente differenti da poter dimenticare (la propria realtà) - dimenticarsi (di sé) e/o ritrovarsi nello specchio, deformante e insieme preciso, di persone, situazioni, lingue diverse dal solito.
Ma tornare ogni anno nella propria terra, ritrovare i colori, gli odori, i sapori che stanno iscritti nel proprio DNA, passare ore e ore con familiari con cui, nel resto del tempo, non si condivide la quotidianità, è un percorso diverso. Fatto di vuoti (già, la “vacanza”!), e di pieni - spesso di troppo pieni e di troppo vuoti.
E’ la ri-immersione in un tempo-spazio, mutevole e immobile, in una sorta di acquario dell’anima che in qualche modo equivale, che lo si voglia o meno consapevolmente, al restare dentro se stessi. Diversi perché la vita e le esperienze, fatte magari in contesti molto lontani, hanno maturato modi e convincimenti nuovi, ma ancorati ad uno specifico pezzo di terra, ad un lembo di mare. Perché, nel tempo, le persone, tante, si disperdono, escono dai confini del proprio cuore, ma un luogo può restare dentro per sempre.
Naturalmente, ogni generalizzazione vale per quello che vale, le esperienze sono così tante. C’è anche chi torna con distacco e leggerezza, chi viene perché deve, almeno per qualche giorno, rivedere una nonna o uno zio; chi, volendo fare i bagni, mette in conto che il mare calabrese, pur sporco, resta più bello di tanti altri, e che a pranzo e cena, comunque, c’è una cucina da consolazione perfetta.
Resta comune il fatto che, poi, si ri-parte. Qualcuno sicuro di ritrovare un lavoro che ama, una città in cui sta bene, attività e interessi che gli riempiono le giornate e che in Calabria non avrebbe; qualche altro che si chiede se, arrancando tanto a Nord, forse non sarebbe il caso di arrabattarsi nella propria terra. Chi se ne parte felice d’averci passato un mese, ma non resisterebbe di più, chi sorride ma si strugge di non poter rimanere, chi finge, magari anche a se stesso, che preferirebbe restare ma in fondo ha già la mente altrove.
Di quelli che stanno sempre lì, alcuni passeranno i prossimi undici mesi aspettando che arrivi di nuovo luglio per riportare chi è appena andato via. Faranno le cose di sempre, un giorno dopo l’altro si fingeranno normali, ma, in realtà, respireranno in apnea, il fiato sempre trattenuto in un’attesa talora fiduciosa, più spesso inquieta (chissà se camperò un altro anno per rivedere figli e nipoti) come se mancasse sempre qualcosa (qualcuno).
La mancanza di respiro largo per un dolore che stringe il cuore, per un’ansia che non fa tenere la maglia interna attaccata alla carne, prende anche taluni (forse non pochi) di quelli che, a settembre, sono di nuovo sparsi, qui e là, in Italia, in Europa e, magari, in altri continenti. Anche loro con la costante sensazione di non essere completi, come ci fosse una parte del tronco o un fianco mancante.
Nell’aria di Calabria – che sia quella dei veleni nascosti sottoterra o nel mare o quella che sa di gelsomini e agrumi – resta come una nube invisibile e immobile.
Un groviglio di inquietudine rassegnata, lacrime rapprese, vite contratte, la ferita mai davvero cicatrizzata anzi continuamente suppurante di malsana sedimentazione di migliaia e migliaia di solitudini, sconfitte, separazioni grondanti sensi di colpa.
Un macigno, un piede nemico, che ‘nci ‘cuppa ‘o cori (le opprime il cuore).

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