spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

lunedì 30 settembre 2013

ALFANO: IO DIVERSAMENTE BERLUSCONIANO

Salvare l’Italia? Dimentichiamoci Letta, Renzi e Berlusconi


Scritto il 30/9/13


ABBIAMO DIMENTICATO ALFANO










La parola d’ordine è una sola: vincere. Così Mussolini dal fatale balcone, tanti anni fa. Oggi che il Duce non c’è più, resta comunque una parola d’ordine – un’altra: sopravvivere – ed è sempre l’indizio di un gioco truccato. Chi parla per proclami, oggi più di ieri, sta barando: sa benissimo che la verità è lontana anni luce dalle parole. Non solo non si può “vincere”, ma non si può più nemmeno sopravvivere. E’ matematico, pallottoliere alla mano: se non hai più moneta da creare e quindi da spendere, e se ormai è lo straniero a gestire addirittura la tua borsa, le speranze di continuare a galleggiare – lavoro, consumi, servizi – sono ridotte a zero. La beffa suprema è che la verità seguita e restare fuori dalla porta, oscurata con zelo dai mattatori della disinformazione, oscuri manovali e pallidi eredi del Solista del Balcone. Agli ordini delle grandi lobby che dominano le comparse della democrazia – cartelli elettorali e semi-leader, sindacati e ras industriali complici della finanza – giornali e televisioni parlano di Letta, Napolitano e Berlusconi come di autorità politiche in grado di gestire davvero la crisi italiana, senza mai neppure domandarsi da dove venga, questa maledetta crisi.
La parola tabù, mai pronunciata nei momenti che contano, è sempre la stessa: moneta. Ci è stata sottratta, la moneta, con un gioco di prestigio che Mussoliniaveva in palio un grandioso traguardo civile, l’unificazione storica del continente che insieme a Galileo, Leonardo e Voltaire seppe partorire lo schiavismo e il colonialismo, le guerre di religione, il nazifascismo, la Shoah e due conflitti mondiali. Risultato: all’inizio degli anni ’90 abbiamo applaudito, mentre ci sfilavano di tasca il portafogli. Ancora non lo sapevamo, ma i padroni della Terra avevano già capito che la breve festa del dopoguerra – lo sviluppo, il progresso, il benessere, i diritti – era praticamente finita. Era terminata, la ricreazione, anche nella critica trincea italiana, il paese del “miracolo” che – grazie al debito pubblico dosato in modo strategico – aveva raggiunto risultati straordinari in brevissimo tempo, nonostante la forte corruzione della classe politica, tollerata perché indispensabile a cementare il sistema atlantico in funzione anti-Urss.
Così, sorridemmo sollevati alla caduta del Muro di Berlino, anche perché l’alba della nuova era sembrava sorvegliata dalla presenza rassicurante di un grande della storia come Mikhail Gorbaciov. Appena qualche anno dopo saltarono in aria Falcone e Borsellino, mentre i reggenti della transizione avevano appena ceduto lo scalpo dell’Italia – cioè il nostro – all’assise di Maastricht. Oggi, vent’anni dopo, del panfilo Britannia con a bordo Mario Draghi e gli squali della finanza parassitaria anglosassone parlano liberamente, in seconda serata, Gianluigi Paragone e Loretta Napoleoni, mentre – nel giorno del crac della larghe intese – Lucia Annunziata chiede invano al preoccupato Enrico Mentana che si racconti finalmente tutta la storia degli Illuminati, il grande retroscena dei veri clan onnipotenti, la filiera delle svendite e delle cessioni-fantasma che si snocciola ininterrotta fino ai nostri giorni con le vicende Telecom e Alitalia, infrastrutture nazionali finanziate con glorioso ed efficiente debito pubblico per fare Gorbaciovdell’Italia un paese moderno, una delle prime 7 economie mondiali.
Tutto finito, da tempo: non solo perché Slovenia e Croazia non sono più nemiche dell’America, ma anche perché potrebbe diventare atlanticamente inaffidabile persino la docile Italia, così come la Grecia e le altre vittime sacrificali dell’Eurozona, se solo diventasse un po’ più amica della Russia, cioè del maggior forziere energetico di tutta la latitudine eurasiatica. Meglio tenerla al guinzaglio, l’Europa, magari premiando l’immancabile kapò tedesco – ovviamente a insaputa dei tedeschi stessi, a cui provvede la relativa disinformazija, quella che racconta loro, mentendo, che il Sud Europa è un continente di irresponsabili scrocconi. Vedono lungo, i signori della Terra: una sfera orbitante che ormai ospita sette miliardi di esseri umani non può più essere il paese della cuccagna per il “miliardo d’oro”, anche perché l’impero occidentale declina, i Brics reclamano la loro parte e all’orizzonte c’è un subcontinente sterminato che si chiama Cina.
Acqua e cibo, clima e terra. I limiti dello sviluppo smentiscono la fiaba della crescita infinita, su cui si basa l’ottuso credo bugiardo di tutti gli addetti alla narrazione ufficiale, quelli che hanno sempre sparso nebbia sulla scienza dell’economia, come fosse un’arte magica per iniziati, incomprensibile e fuori dalla portata dei comuni mortali. Il loro capolavoro: farci credere che il debito dello Stato sia paragonabile a quello di famiglie e aziende – che, a differenza dello Stato, il denaro non possono crearlo dal nulla, ma solo guadagnarlo. I dominus sono abilissimi nell’arte della prevenzione: hanno annientato le vecchie barricate, smantellato le opposizioni, accecato e comprato gli avversari, plastificato l’immaginario collettivo, desertificato le coscienze pubbliche. Oggi sono in grado di presentare la cosiddetta crisi come un evento ciclico, una calamità naturale inevitabile e rimediabile solo con la sottomissione, la tolleranza illimitata del disagio crescente. Fino all’estrema depravazione italiana: prima il brutale gauleiter Monti, poi le larghe intese fangose tra gli ultimi boss di una sotto-casta di affannati Jorge Mario Bergogliocamerieri, tra i quali già si fa largo il sorriso impaziente dell’ultimo erede dinastico, Matteo Renzi.
Mentre il regime del pensiero unico presidia ancora saldamente la comunicazione, è proprio l’urto della crisi economica a spalancare nuovi crateri nel tessuto sociale, seminando innanzitutto paura. Il frangente è feroce e richiede parole adeguate, ferme e inequivocabili: le trova coraggiosamente un uomo soltanto, il Papa di Roma. Verità dolorose, pronunciate in solitudine da Jorge Mario Bergoglio, di fronte all’indecente silenzio di partiti e ministri, politici e sindacalisti. Tutti gli altri, gli attivisti estranei al circuito, i potenziali costruttori dell’alternativa – italiana e necessariamente internazionale, almeno europea – appaiono ancora dispersi, ognuno concentrato su singoli aspetti della catastrofe incombente: le malefatte delinquenziali del piccolo clan nazionale di potere, la grande tragedia della carenza di energia e materie prime, la relativa geopolitica della guerra, il disastro ambientale dietro l’angolo: secondo l’Onu, entro cent’anni il clima impazzito solleverà i mari fino a sommergere le città rivierasche.
Al centro della scena, naturalmente, resta l’aspetto più pratico e immediato della sciagura, la piaga della disoccupazione che rivela la gravità della cosiddetta crisi economico-finanziaria dell’Occidente: da una parte l’Eurozona, con gli Stati privati della loro moneta e quindi costretti a tosare i cittadini, e dall’altra Londra e Washington, che invece il denaro continuano giustamente a fabbricarlo. Peccato però che quello stesso denaro venga usato dalla finanza per taglieggiare gli sventurati che la sorgente del denaro l’hanno perduta. A noi, i paesi dell’Eurozona, si impongono tangenti su un debito pubblico non più sovrano ma comprato e venduto a tasso di usura, con la piena collaborazione della Bce (quella di Mario Draghi, l’uomo del Britannia) che in virtù del trattato-capestro di Maastricht continua a negare Draghialle nostre repubbliche il legittimo accesso alla moneta, ovvero l’ossigeno necessario a produrre investimenti, lavoro, consumi, benessere.
La prima alternativa imprescindibile, per evitare che la situazione precipiti definitivamente nella disperazione, è quella della parola: servono narrazioni oneste, spiegazioni chiare e sincere. Solo oggi emerge appieno il ruolo-chiave delle élite nelle nostre recenti disavventure, in realtà frutto di una oscura e accurata premeditazione almeno trentennale. E il peggio, dice uno storico dell’economia come Giulio Sapelli, non è neppure lo strapotere occulto dei grandi clan mondiali: il peggio è che persino loro hanno ormai smarrito la bussola, e quindi ci aspettano turbolenze mai viste. Quelle, peraltro, a cui stiamo cominciando regolarmente ad assistere. In condizioni di crescente pericolo, in cui la pace sociale potrebbe rapidamente crollare anche in Italia al livello greco, servirebbe quindi uno sforzo straordinario per unire forze e costruire alleanze attorno a un’intelligenza collettiva democratica, in grado di affrontare l’emergenza nella quale stiamo sprofondando.
Punto primo: pervenire finalmente a una lettura univoca e condivisa della grande crisi, che è la somma di più crisi. Da sola, la riconquista di una sovranità politico-monetaria non può risolvere il dramma storico della grande recessione, la fine della crescita occidentale. Per contro, senza potere di spesa pubblica non è neppure lontanamente pensabile nessun programma di investimento capace di costruire futuro. Verissimo: senza gli F-35 e la linea Tav Torino-Lione si potrebbero aprire centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma i disoccupati sono milioni. Per il loro futuro, cioè il nostro, serve una riconversione generale dell’economia: lavoro utile e pulito, nei settori chiave dell’energia rinnovabile, dell’edilizia verde, dei servizi alla persona e delle filiere corte. Una riconversione efficace, sostenuta da uno Stato sovrano funzionante e democraticamente governato, con pieno potere di spesa. Tutto si può fare, ma servono soldi: i nostri, quelli che ci hanno sottratto a Maastricht, a tradimento. Ovviamente, in televisione non se ne parlerà neppure stavolta. Ma sarà bene che qualcuno cominci a farlo: qui si tratta di salvare l’Italia, non il destino di Letta, l’avvenire di Renzi o la malinconica vecchiaia di Berlusconi.
(Giorgio Cattaneo, “Salvare l’Italia: dimentichiamo Letta, Renzi e B.”, da “Megachip” del 29 settembre 2013).


Nessun commento:

Posta un commento

5 STELLE