spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

lunedì 30 settembre 2013

IO SONO POPULISTA, DEMAGOGO E CERCO L'INFORMAZIONE QUELLA "VERA".

L'Intervento del prof. Brancaccio alla Conferenza MMT Calabria
Versione riveduta e ampliata dell’intervento audio di Emiliano Brancaccio alla conferenza “MMT Calabria Europa” del 30 novembre 2012.








di Emiliano Brancaccio

Dalla crisi della moneta unica alla critica del liberoscambismo europeo. Brevi note sulla MMT



Mezzogiornificazione” europea: Paul Krugman (1991) l’aveva preannunciata in tempi non sospetti ed altri, poi, l’hanno riesaminata e ne hanno studiato gli sviluppi. Con questa espressione possiamo intendere, sinteticamente, quei processi  di desertificazione produttiva, annientamento o assorbimento estero dei capitali nazionali, ed emigrazione di massa dei lavoratori, che soprattutto a seguito della crisi economica stanno determinando profondi mutamenti nella struttura produttiva dei paesi periferici dell’Unione monetaria europea. La “mezzogiornificazione” indica, in sostanza, che il dualismo economico che ha duramente segnato la storia dei rapporti tra Nord e Sud Italia non costituisce più un caso particolare limitato al nostro paese, ma andrebbe ormai riletto come caso anticipatore ed emblematico di un dualismo molto più ampio, che si riproduce oggi su scala continentale tra i paesi del Nord e del Sud dell’Europa, e che rischia di compromettere gravemente i loro futuri rapporti economici e politici.

Non suscita quindi particolare meraviglia che i cittadini meridionali, oggi, risultino particolarmente sensibili ai mutamenti in corso negli assetti dell’eurozona. Subendo gli effetti del dualismo economico già da tempo, essi sembrano intuire più rapidamente di altri quali siano i rischi che l’Europa oggi sta correndo. Non credo sia del tutto casuale, dunque, che iniziative come questa, che mirano a diffondere maggior consapevolezza dei processi economici in atto, maturino proprio lì da voi, a Reggio Calabria, città estrema situata esattamente al centro del Mediterraneo, nei pressi di Scilla e al cospetto di Cariddi.

Con questo intervento audio da Napoli cercherò di non sottrarre tempo alle ulteriori relazioni dei colleghi Kelton, Auerbach e Black, di cui ho letto con interesse vari lavori e che saluto. Pertanto, in quel che segue mi limiterò ad accennare solo ad alcuni degli snodi concettuali e delle questioni aperte riguardanti la “modern money theory” (MMT), la “teoria della moneta moderna”, definita anche “teoria monetaria moderna”.



La prima questione verte sul concetto di “novità”. E’ lecito definire la teoria monetaria moderna una novità assoluta nel campo della teoria economica? Io credo di no: la teoria monetaria moderna non rappresenta un inedito. La mia posizione riflette per certi versi quella dell’economista canadese Marc Lavoie (2011). Secondo Lavoie le proposizioni chiave della teoria monetaria moderna possono essere ricavate dagli schemi tipici della tradizione Post-Keynesiana; in particolare, dalle versioni di quegli schemi dette del “circuito monetario”, che in Italia hanno avuto una certa diffusione grazie soprattutto al contributo dell’economista Augusto Graziani (2003).

Va ricordato, inoltre, che la teoria monetaria moderna eredita dalla più ampia tradizione dei filoni di pensiero economico critico una tesi cruciale, direi attualissima: una economia capitalistica di mercato, lasciata a sé stessa, non è in grado di garantire stabilmente la piena occupazione del lavoro e delle altre forze produttive esistenti, né nel “breve” né nel “lungo periodo”. Tra le numerose implicazioni di questa tesi vi è l’idea che il finanziamento monetario della spesa pubblica, a date condizioni, può determinare aumenti duraturi della produzione fisica e della stessa capacità produttiva, con effetti sull’inflazione che solo per caso risulterebbero proporzionali all’entità del finanziamento monetario della spesa.

Credo sia utile ricordare che questa tesi trova un rigoroso fondamento di teoria dei prezzi relativi e della distribuzione negli sviluppi della cosiddetta teoria della produzione, alla quale, tra gli altri, Leontief e soprattutto Sraffa hanno dato fondamentali contributi (cfr. Pasinetti 1975; Kurz e Salvadori 1995; Petri 2004). In particolare, è proprio alla luce della teoria della produzione che la tesi suddetta e le sue implicazioni possono essere estese al cosiddetto “lungo periodo”, e le obiezioni di Krugman (2011) alla MMT possono quindi essere efficacemente criticate.

Ora, questo rinvio alla storia, alla tradizione, al profondo substrato di pensiero critico sul quale la “teoria monetaria moderna” inevitabilmente poggia, è un fatto che magari potrà creare qualche imbarazzo tra gli apologeti di quella diffusa malattia politica che va sotto il nome di “nuovismo”, ma a ben pensarci dovrebbe esser considerato positivo. In particolare, dovrebbe essere considerato una vera fortuna da parte di coloro che intendano realmente contribuire alla edificazione di un fronte alternativo, autorevole e non evanescente, nella durissima battaglia delle idee in campo economico.

Il guaio è che il nuovismo è una malattia atavica e tenace. Mi vengono in mente, per esempio, gli agitatori russi che nel 1920 pretendevano di costruire una nuova cultura rivoluzionaria sulle rovine di quella vecchia, e si dichiaravano pronti a bruciare le opere rinascimentali di Raffaello pur di raggiungere il loro scopo. Dovette scomodarsi addirittura Lenin (1977) per spiegare che essi erano soltanto dei poveri illusi, per un motivo che in un’ottica storico-materialista risulta subito evidente: una nuova cultura, che possa dirsi realmente rivoluzionaria, non sbucherà mai fuori dal nulla ma potrà solo scaturire da uno sviluppo del sapere che l’umanità ha sedimentato nel corso della sua Storia. Nei tempi confusi che viviamo, che sono anche tempi di rivoluzioni di cartone, coltivo il sospetto che simili puntualizzazioni non siano del tutto banali.

Mi permetto di far notare, a questo riguardo, che anche gli aspetti apparentemente più sorprendenti, che sembrano un pochino più eretici, della teoria monetaria moderna, in realtà possono esser considerati dei casi molto particolari degli schemi Post-Keynesiani. Faccio un esempio: una tesi apparentemente sconcertante di alcuni esponenti della teoria monetaria moderna è che da un punto di vista logico verrebbe prima la spesa pubblica del governo, e solo dopo di essa potrebbero verificarsi il prelievo fiscale e i prestiti al governo da parte dei privati. In altri termini, secondo questa visione, se il governo prima non spende, non ci potrà essere né prelievo fiscale né prestiti privati allo stesso governo. Ora, l’idea secondo cui la spesa pubblica viene logicamente prima di ogni altra cosa, a prima vista sembra incredibile. Tuttavia, come Lavoie ha mostrato, essa deriva da una semplice convenzione contabile: alcuni teorici monetari moderni analizzano la banca centrale e lo stato come se fossero un unico settore consolidato. L’arcano è facilmente risolto, dunque. Tuttavia bisogna anche aggiungere che questo consolidamento, nella attuale realtà politico-istituzionale, non esiste. Magari è auspicabile, ma non esiste ancora. E in periodi confusi come questi, forse sarebbe il caso di tenere sempre ben distinti i meri auspici dai fatti.

I colleghi presenti mi scuseranno per queste precisazioni, che loro forse reputeranno scontate. Io tuttavia credo si tratti di chiarimenti necessari. Perché a mio avviso, se davvero si vuol contribuire alla lunga e faticosa opera di formazione di una coscienza critica collettiva in grado di avanzare precise obiezioni alla visione economica dominante e di suggerire una  teoria economica alternativa e moderna, magari anche una “teoria monetaria moderna”, allora è indispensabile sfrondare tale teoria dagli orpelli, e soprattutto dagli eventuali errori.

A proposito di errori. In un interessante documento a supporto della teoria monetaria moderna, leggo che «nell’economia reale le importazioni sono un beneficio, mentre le esportazioni sono un costo» (Mosler et al. 2012). Ora, intendiamoci bene: se questo vuole essere un modo per criticare l’odierno assetto capitalistico mondiale, che induce interi paesi a deflazionare l’economia e a creare disoccupazione interna nello strenuo tentativo di gareggiare sui mercati internazionali, io apprezzo le buone intenzioni. Al tempo stesso, però, credo che questa modalità di avanzare la critica all’assetto vigente sia potenzialmente fuorviante.

Sotto questo aspetto, c’è un punto della teoria monetaria moderna che appare ancora opaco, e che rischia di rivelarsi debole se non viene meglio approfondito: si tratta dei rapporti che un paese sovrano ha con il resto del mondo, che vengono sinteticamente espressi proprio dall’andamento delle importazioni e delle esportazioni, e più in generale della bilancia dei pagamenti verso l’estero.

A me pare che su questo punto alcuni elementi di debolezza della MMT emergano non solo nei documenti di propaganda, inevitabilmente limitati dalle necessità della sintesi, ma anche in contributi accademici caratterizzati da un livello di raffinatezza superiore: per esempio, quando uno dei più autorevoli esponenti della teoria monetaria moderna sembra suggerire che la soluzione chiave per gestire i problemi di bilancia dei pagamenti risiede in un tasso di cambio flessibile (Wray 1998). Ebbene, io non credo che le cose stiano esattamente in questi termini. Mi spiego.

L’obiettivo principale della MMT è di fare in modo che un paese sovrano usi il finanziamento monetario della spesa pubblica per rendere praticabile l’attuazione di un programma nazionale per la piena occupazione. Alcuni esponenti della MMT parlano in questo senso dello stato come “occupatore di ultima istanza” (Wray, cit.), proponendo così una feconda parafrasi del concetto di “prestatore di ultima istanza” di Bagehot. Prendendo spunto da Leontief, invece, personalmente credo che un programma per la piena occupazione dovrebbe farsi carico di alcuni problemi tipici della pianificazione, tra cui l’esigenza di intervenire sugli squilibri strutturali fra i territori. Per questo preferisco parlare dello stato come “occupatore di prima istanza”. Tali differenze però possono essere affrontate anche a un secondo livello di analisi. L’idea preliminare della MMT, di finanziare con moneta la spesa pubblica, è a mio avviso corretta e condivisibile. Tuttavia, è necessario soffermarsi sul fatto che tale politica farebbe aumentare anche le importazioni dall’estero. Ed è difficilmente contestabile che tale aumento delle importazioni potrebbe creare problemi rilevanti alla bilancia dei pagamenti e, più in generale, all’intera struttura del sistema produttivo nazionale. Problemi che vanno ben al di là delle scelte intorno alla mera gestione del tasso di cambio e alla stessa sovranità monetaria.

Gli italiani, i latino americani, gli stessi britannici, sanno benissimo, per esperienza diretta, che i problemi di bilancia dei pagamenti non possono essere gestiti tramite la mera dinamica del cambio. Anzi, dal punto di vista del nesso tra bilancia dei pagamenti e sovranità, al pari e anche più rapidamente della deflazione interna, un cambio flessibile può ridurre il valore dei capitali nazionali, può quindi esporre a facili acquisizioni estere e può dunque diminuire, anziché aumentare, il grado di sovranità. Ecco perché in passato, in Italia, in America Latina e in Gran Bretagna, anche in periodi di fluttuazione dei cambi, venivano evocati e talvolta venivano anche realizzati dei programmi detti di “sostituzione delle importazioni”: cioè dei programmi più o meno protezionistici, di limitazione dei movimenti di capitali, di disciplinamento degli investimenti esteri e, laddove necessario, di controllo dei movimenti di merci.

Verrebbe a questo punto da chiedersi per quale motivo alcuni esponenti statunitensi della MMT tendono a sottovalutare questi problemi, e talvolta arrivano per questa via a giudicare in termini acriticamente ottimistici gli stessi investimenti diretti esteri. Questo in un certo senso è un paradosso, se si considera che il finanziamento monetario della spesa pubblica è stato adoperato, in molti casi storici, proprio per scongiurare la perdita di sovranità che può derivare dalle acquisizioni estere. In una fase in cui il tema dell’inserimento di capitali esteri negli assetti proprietari e di controllo sembra travalicare l’ambito degli ultimi asset strategici in mano pubblica e arriva a lambire persino il sistema bancario, sarebbe bene fare molta più chiarezza, su questo punto. Ma se mi dilungassi qui pure su questi aspetti finirei per prendere troppo tempo.

Ciò che conta stabilire immediatamente, in questa sede, è che la teoria e la storia ci dicono che se davvero si vuol ripristinare un certo grado di sovranità – e a fortiori di sovranità democratica - allora la bilancia dei pagamenti verso l’estero diventa una variabile cruciale. Ed è opportuno aggiungere che per controllare questa variabile bisogna passare per forza tra Scilla e Cariddi: o si attua un coordinamento internazionale tra paesi, oppure si attuano forme più o meno stringenti di protezionismo finanziario e  commerciale, oppure ancora si realizza una combinazione tra le due opzioni. Le scelte sui cambi fanno senz’altro parte del problema ma di certo non lo esauriscono, né possono esser considerate l’aspetto decisivo.

E qui veniamo alla questione politica fondamentale. E’ la questione della scelta tra una strategia di profonda revisione del palinsesto della moneta unica e del mercato unico europeo da un lato, e una strategia alternativa, che sia basata non soltanto sullo sganciamento dalla moneta unica ma anche, se necessario, su una revisione critica del mercato unico europeo. In Italia e altrove, come voi sapete, si stanno formando due fronti, su questo tema. Curiosamente, noto che persino tra i sostenitori della teoria monetaria moderna sono emerse posizioni diversificate, a questo riguardo.

Ebbene, in un libro recente abbiamo provato a suggerire una via dialettica per cercare di affrontare questo decisivo snodo politico (Brancaccio e Passarella 2012). La nostra proposta parte da una serie di evidenze, che provo qui ad esporre in estrema sintesi.

Osserviamo in primo luogo che la “mezzogiornificazione” europea ha fatto registrare una forte accelerazione a seguito della crisi economica. I portatori degli interessi prevalenti, in Germania e nei paesi “centrali” dell’Unione, traggono grandi vantaggi, relativi e assoluti, da questo processo. La crisi ovviamente colpisce anche tali paesi, ma in termini comparati il suo impatto su di essi è più modesto, il che accresce la forbice rispetto alle aree “periferiche” dell’Unione. Basti guardare allo spread, non solo tra i tassi d’interesse ma anche tra le bancarotte aziendali e, soprattutto, tra i livelli di occupazione: dal 2007 al 2012 i paesi del Sud Europa hanno perso quasi quattro milioni di posti di lavoro, mentre la Germania ha addirittura accresciuto l’occupazione di circa un milione e mezzo di unità. Ma c’è di più: la miscela di mezzogiornificazione e crisi, in ultima istanza, implica “centralizzazione” dei capitali nel senso di Marx, e di Hilferding (2011). Rilevo, a questo proposito, che a seguito della crisi gli indici azionari della Germania da un lato, e dei paesi del Sud Europa dall’altro, si sono chiaramente divaricati. La forbice, si badi bene, in termini relativi caratterizza anche il settore bancario. Questo aumento generalizzato della varianza dei valori azionari contribuisce a spiegare perché il rapporto tra investimenti diretti esteri netti e formazione lorda di capitale fisso della Germania verso l’Italia sia mutato di segno a cavallo del 2008-2009. Mentre nei primi anni dell’euro i proprietari tedeschi sono risultati venditori netti di capitale, dopo la crisi essi hanno nuovamente assunto il ruolo storico di acquirenti netti.

I dati insomma segnalano che siamo al cospetto di una tremenda accelerazione del processo di centralizzazione dei capitali e di “egemonizzazione” tedesca dell’Unione europea. Un processo che ovviamente genera contraddizioni e conflitti, che a un certo punto potrebbero rivelarsi ingestibili. A tale riguardo, i portatori degli interessi prevalenti in Germania sanno che l’allargamento dei divari economici e i connessi meccanismi di centralizzazione dei capitali potrebbero a un certo punto rivelarsi politicamente insostenibili per le nazioni periferiche. Questi fenomeni dunque accrescono la probabilità di una deflagrazione della moneta unica europea. E’ interessante notare, sotto questo aspetto, che ai vertici delle istituzioni tedesche sembra piuttosto diffuso lo scetticismo intorno alla reale efficacia della strategia di riequilibrio deflazionistico a carico dei soli paesi debitori che viene perseguita dalla Banca centrale europea. In effetti, benché gli ultimi dati sugli spread e sulle bilance commerciali sembrano rinnovare le speranze tra le file degli ottimisti (cfr. Congiuntura Ref. 2012), allo stato dei fatti ritengo anche io, con molti altri, che vi siano tuttora valide ragioni per  nutrire forti dubbi sulla tenuta futura dell’eurozona (cfr. ad esempio le posizioni di Stiglitz e dello stesso Krugman; tra gli italiani fu Graziani uno dei primi a dubitare della sostenibilità della zona euro; più di recente, cfr. ad esempio Bagnai 2012).

Sarà forse la memoria del fallimento delle politiche di Bruning, o magari un sussulto di “cattiva coscienza” politica, ma in Germania sembrano in effetti più consapevoli di noi della difficoltà di aggiustare gli squilibri intra-europei a colpi di deflazione nei paesi debitori. Ecco perché le autorità tedesche non nascondono di attendersi una crescita delle tensioni politiche future, e una ulteriore accentuazione della fragilità dell’eurozona. Non è un caso, del resto, che abbiano messo in conto prima di tutti l’eventualità di una sua deflagrazione. La forza dei tedeschi, ai tavoli delle trattative europee, deriva anche da questa capacità di anticipazione degli eventi. E’ evidente cioè che essi sono già pronti a sostenere i costi di una implosione della moneta unica, anche perché dal tracollo potrebbero trarre persino dei vantaggi ulteriori: infatti, come abbiamo cercato di mostrare, il solo mutamento dei rapporti di cambio tra le valute non frenerebbe il processo di centralizzazione in atto, ma anzi potrebbe addirittura intensificarlo (Brancaccio e Fontana 2011).

L’unica vera paura che agita i portatori degli interessi prevalenti in Germania è che una eventuale crisi della moneta unica sia accompagnata anche da una crisi del mercato unico europeo. Essi cioè temono che i paesi periferici siano a un certo punto tentati dall’adozione di soluzioni di tipo “neo-protezionistico”, sui mercati finanziari ed anche sui mercati delle merci. In Germania discutono animatamente di questo pericolo, poiché sanno che il processo di egemonizzazione tedesca dell’Unione europea subirebbe una pesante battuta d’arresto se venisse messa in discussione la libera circolazione dei flussi finanziari e delle merci. Il dibattito interno alle associazioni imprenditoriali, in Germania, ci pare emblematico in questo senso (cfr. ancora Brancaccio e Passarella, cit.).

Una volta che si tenga conto di tutti questi elementi, diventa a nostro avviso ragionevole tentare di tratteggiare una linea d’azione politica. La nostra proposta, in questo senso, si dispiega lungo due traiettorie interconnesse, e può essere sintetizzata nei seguenti termini.

Da un lato, ai tavoli delle trattative europee, le autorità italiane e degli altri paesi periferici dell’Unione dovrebbero riunirsi intorno a un progetto organico di riforma dell’Unione monetaria europea, che si proponga di affrontare alla radice, in termini strutturali e non assistenzialistici, gli squilibri tra le economie del continente. I contributi alla definizione di un piano sostenibile di riforma, in questo senso, sono già numerosi (cfr. per esempio il Manifesto per l’Europa del Sole 24 Ore, nonché la www.letteradeglieconomisti.it del 2010; si veda anche la proposta di “standard retributivo europeo”, in Brancaccio 2012).

Dall’altro lato, per far sì che simili progetti non siano destinati alla critica roditrice dei topi, è indispensabile che le autorità di quegli stessi paesi dichiarino esplicitamente che, se in Europa non dovesse farsi largo una generale volontà riformatrice nel senso indicato, il rischio che esse reagiscano non solo con una uscita dall’euro ma anche con una svolta di tipo neo-protezionista, dovrà ritenersi concreto.

Questa, a nostro avviso, è l’unica carta politica di cui i paesi periferici realmente dispongono oggi in sede europea. Tale strategia, si badi bene, è valida in ogni caso: sia per indurre le autorità tedesche a riconsiderare l’entità dei costi di una eventuale deflagrazione, e quindi a non ostacolare una eventuale riforma dell’Unione, sia eventualmente per far sì che i paesi periferici si attrezzino al meglio per uscire da un’eurozona eventualmente irriformabile.

Per inciso, segnalo pure che una strategia di gestione del break-up che ammettesse anche la possibilità di limitazioni del mercato unico europeo potrebbe avere – per usare un termine antico ma tutt’altro che desueto - una precisa connotazione “di classe”, poiché a date condizioni consentirebbe di salvaguardare maggiormente gli interessi dei lavoratori subordinati.

Beninteso, sappiamo tutti che fino ad oggi le autorità italiane e degli altri paesi periferici hanno agito in direzione esattamente opposta a quella che ho cercato qui di tratteggiare. Basti notare che negli ultimi mesi le redini degli esecutivi dei paesi periferici dell’eurozona sono state affidate ad alcuni tra i più risoluti fautori del liberoscambismo europeo. Sotto questo aspetto Mario Monti rappresenta l’antitesi ideale di una opzione neo-protezionista: egli mai si sognerebbe di evocarla in sede di trattativa, nemmeno di fronte alla prospettiva di una depressione di lungo periodo. E forse nemmeno di fronte a un assorbimento delle banche nazionali ad opera di capitali esteri. In questo senso, potremmo dire che il Professor Monti incarna una clausola di salvaguardia non solo e non tanto della moneta unica, ma anche e soprattutto del mercato unico europeo.

Il mondo però si muove, e la crisi avanza in fretta. Vale la pena di ricordare che la stessa Commissione europea ravvisa numerosi sintomi di revisione della politica del libero scambio già in varie parti del mondo (EU Commission 2012). Inoltre, è interessante notare che anche all’interno del mainstream svariati studiosi, tra cui Dani Rodrik (2011), hanno avviato una critica all’ideologia liberoscambista.

Il messaggio di fondo di questa nota è dunque il seguente: ci sono buoni motivi per ritenere che alle numerose critiche alla perdita di sovranità sulla moneta sia giunto il tempo di affiancare anche una critica più generale al liberoscambismo europeo.

In tal senso domando: la MMT è liberoscambista o neo-protezionista? La mia opinione è che la coerenza logico-politica della MMT richieda un impianto di tipo neo-protezionista. Per quel che mi è dato sapere, alcuni suoi esponenti la pensano così. Non tutti, però. O sbaglio?

Naturalmente, questo cruciale interrogativo dovrebbe porsi in ambito non solo scientifico ma anche e soprattutto politico. Per esempio, tutti i partiti eredi più o meno diretti della tradizione del movimento dei lavoratori dovrebbero prender coscienza, in Europa, che il liberoscambismo, in particolare il liberoscambismo di sinistra, deve essere abbandonato in fretta. Il rischio maggiore, invece, è che tali forze politiche scelgano di restare arroccate a tutti i costi in difesa dell’euro e del mercato unico (Brancaccio, Bragantini, Pianta 2012). Così facendo, tuttavia, esse lasceranno praterie sempre più vaste di potenziali consensi nelle mani di forme nuove di nazionalismo ideologico, e al limite di nuove formulazioni dell’orrida triade di suolo, sangue e razza. Con il tracollo del Pasok e l’ascesa di Alba Dorata, e con le incertezze della stessa Syriza sull’euro, la Grecia costituisce in questo senso l’immagine più nitida del possibile futuro europeo che tanti aborriscono ma che pochi, in questo momento, si preoccupano di scongiurare. Occorrerà lavorare molto, io credo, affinché l’Europa non si tramuti entro qualche anno in un laboratorio sociale in cui magari verificare, questa volta, che la tesi storiografica del fascismo quale mera “reazione” era sbagliata, e che aggregazioni di stampo neofascista possono in realtà espandersi anche nell’assenza totale di movimenti rivoluzionari di matrice comunista. Qualsiasi possibile apporto a questo durissimo lavoro che ci attende dovrà ritenersi, a mio avviso, benvenuto.



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