spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

venerdì 28 giugno 2013

Gezi Parki, un'idea di democrazia.

Turchia: in gioco non c’è un parco ma la democrazia

Di Luca Manunza







Ciò che sta accadendo in questi giorni a Istanbul sembra sorprendere o turbare molti dei cosiddetti osservatori internazionali. Ma già quando ho lasciato Istanbul alcune settimane fa, avevo la sensazione che la rivolta istanbuliota stesse covando. Nulla di leggibile attraverso le categorie mainstream che pretendono sempre rassicurare sulla stabilità dei regimi che fanno comodo ai dominanti. Il peggio è appunto la cancellazione di quella sorta di “gusto dell’evento”, la capacità di raccontare non solo la semplice cronaca, ma anche quegli elementi che sono all’origine di dinamiche straordinarie, impreviste e imprevedibili. Raccontare l’evento è la priorità forse più impellente. Le proteste turche non sono la semplice reazione alla scelta dell’amministrazione di Istanbul di dover destinare gli spazi del parco pubblico Gezi Parki -nelle strette vicinanze di piazza Taksim – alla costruzione di un nuovo mega centro commerciale. Altro che solo “lotta per gli alberi”, adesso tanti si accorgono che forse si tratta della Turchia laica in rivolta contro l’islamismo di Erdogan.

Ecologisti vagamente hippy con un po’ di indignazione verso la dilagante “islamizzazione del paese”? O si tratta di uno di quei “fatti politici totali” che esplodono come rivolta continua contro un assetto sconvolto dalla devastante speculazione finanziaria-immobiliare che produce deportazioni della popolazione storica delle città per imporre il decoro, la morale e il business dei ceti abbienti? Perché nessuno dice che il primo speculatore turco è il sig. Erdoğan con le sue gigantesche e onnipresenti-dominanti agenzie, TOKI e KIPTAS. La sconvolgente modernizzazione liberista della Turchia portata avanti da Erdogan e dal suo partito punta in particolare proprio sulla speculazione finanziaria-immobiliare nelle grandi città. Istanbul è passata da circa cinque milioni di abitanti a circa quindici milioni in neanche 15 anni! E un aumento comparabile si ha anche in altre città (vedi Città mediterranee e deriva liberista, Mesogea, 2011). Il 2010 con Istanbul capitale europea della cultura fu la grande occasione di un devastante e spietato darwinismo sociale. Ma non poteva continuare senza alcuna reazione popolare e questa non potrà essere fermata facilmente a colpi di gas lacrimogeni, idranti, centinaia di feriti anche gravi alcuni morti ancora in numero imprecisato e ormai quasi duemila arresti.

Le rivolte sono cominciate nel cuore commerciale e finanziario del paese, il distretto di Beyoglu, negli ultimi dieci anni ridotto a villaggio urbano per eccellenza, il luogo del loisirgentrificato e totalmente separato e diverso dal resto della società urbana di prima. Il tentativo di giustificare lo sfacciato abnorme uso di mezzi e uomini della polizia è stato subito smascherato non solo dalla stragrande maggioranza degli istanbulioti ma anche dagli abitanti delle altre città turche che infatti hanno subito seguito e da giorni seguono l’esempio dei primi. In ventuno città turche si sono riprodotte le stesse scene di Istanbul dove, proprio nelle prime ore del 3 giugno 2013, 5 giorni dopo l’inizio dei sit-in, i manifestanti in piazza sono in continuo aumento. Mentre nella capitale Ankara iniziano le prime rivolte, a Izmir la polizia tenta di frenare la partecipazione ai cortei dispiegando posti di blocco su tutta l’area periurbana della città, con arresti preventivi o impedendo l’acceso dei non residenti all’area urbana centrale.

L’esplosione delle piazze e la sua accelerazione hanno radici ben più lontane della “scintilla” del parco di Istanbul. L’opposizione alla rivoluzione liberista d’ Erdoğan & C. sembrava schiacciata dalla brutalità delle espropriazioni e deportazioni nelle periferie dei vecchi abitanti del centro storico (innanzitutto i rom che da secoli erano proprietari di casa nel centro storico); in questi ultimi anni più di settanta giornalisti sono stati arrestati e numerosi docenti universitari sono stati minacciati, denunciati e costretti a stare zitti. Ma sempre più numerosi gruppi di giovani, accademici, artisti e lavoratori del precariato dei servizi, iniziavano a incontrarsi nei piccoli bar di Beyoglu.

Da circa un anno si sono formati anche gruppi di rifugiati politici, intellettuali e “ombre” della città che hanno lavorato per far nascere prime forme di muto soccorso e cucine popolari autogestite, la prima proprio nel quartiere di Tarlabasi; da anni, pezzi non ufficiali della politica turca tentano di capire come interrompere la devastazione che il paese sta subendo. Tutte piccole iniziative e azioni autonome, nate con l’idea di poter arrivare a una sorta di “sciopero politico” generalizzato contro il potere, contro lagovernance poliziesca della “nuova” Turchia in mano a boss ibridi pubblici e privati ben incarnati da Erdoğan (caso simile alla famiglia Trabelsi della moglie di Ben Ali).

In realtà non c’entra la semplice contrapposizione tra islamismo e laicità. Gli stessi comunicati trasmessi su internet e sui media ufficiali della piattaforma -creatasi nei primi giorni di protesta- chiariscono la portata e le motivazioni delle mobilitazioni: “La lotta per il parco di Gezi ha fatto scattare la rivolta giovanile di almeno due generazioni cresciute sotto i governi autoritari di Recep Tayyip Erdoğan e le imposizioni dell’AKP Il partito al potere).Sono i figli delle famiglie sfrattate da Tarlabasi in nome della speculazione edilizia, sono gli operai licenziati in nome della privatizzazione, i precari schiacciati ogni giorno sotto la ruota del profitto. La resistenza per il parco di Gezi ha cambiato la stessa definizione di quel che chiamiamo spazio pubblico: la battaglia per il diritto a restare in piazza Taksim è rivolta contro l’accaparramento di questo diritto da parte dei ceti abbienti. Il piano di “riqualificazione urbana” liberista dell’AKP copia con modalità ancora più brutali quello che s’è fatto in tanti centri storici europei e di altre città mediterranee (si pensi a Barcellona, Beyrouth o Tunisi ecc., nel libro prima citato); è così che la Turchia di Erdogan si vuole integrare all’UE. “Erdoğan ha provato a imporci la sua idea di piazza, ma oggi quello che è piazza Taksim lo abbiamo deciso noi cittadini: Taksim e Gezi Park sono i nostri spazi pubblici”. In realtà l’AKP ed Erdoğan sono innanzitutto liberisti e si coprono di un pseudo islamismo per avere il consenso degli imams che coinvolgono nel loro business e per sbarrare ogni spazio all’opposizione politica antiliberista (insomma, una copia dei cattolici di destra e ciellini che stanno coi Berlusconi, coi Monti e ora col gov. Letta-Alfano).

L’AKP pretende estendere il suo clientelismo per creare una sorta di “comunità” nazionale, religiosa e globale, in parte con una revisione del kemalismo tradizionale. Nel passaggio di Istanbul da città a megalopoli, sin dagli anni Ottanta, la priorità è stata data all’ibridazione fra pubblico e privato nei principali settori: il turismo, il cemento, l’agro-alimentare, la siderurgia, il commercio, la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, la raffinazione e la distribuzione del petrolio, le comunicazioni e le telecomunicazioni. L’urbanizzazione sempre più massiccia e il declino dell’economia tradizionale hanno generato, nella più totale assenza di sbocchi produttivi e politiche di welfare, un esercito sterminato di persone destinate alle più diverse forme di lavoro servile: domestici, badanti, servitori impiegati nelle mansioni più improbabili per le élite del paese e enormi fette di precariato urbano senza alcun futuro. La sanità è oggi iper-costosa e inaccessibile ai più; l’utilizzo dei trasporti è diventato più selezionato e costoso (dal 2008 al 2013 il costo dei trasporti è quasi triplicato), lo stesso vale per il prezzo dei beni di prima necessità mentre l’accesso all’alloggio in città è diventato quasi proibitivo se non impossibile per i redditi miserabili della maggioranza del popolo dei pendolari, precari, servi. Le nuove leggi anti sismiche recenti sono state la scusa per cacciare i proprietari di case meno abbienti nei vecchi quartieri. La possibilità di ottenere visti per andare all’estero è diminuita notevolmente come raccontava Kenan, uno studente e artigiano part-time.

Da una settimana, le proteste si sono estese su tutto il territorio nazionale e sembra che non accennino a svanire. Non sembra esserci alcun dualismo fra manifestanti buoni e cattivi, violenti e pacifici, islamici moderati e componenti sovversive laiche. Un’intervista rilasciata ad Al Jazeera durante la diretta streaming da piazza Taksim il 1 giugno 2013 appare lucidissima:

Sono movimenti popolari, ci sono studenti, ultras delle principali squadre di calcio di Istanbul, lavoratori del tessile, persone che non hanno più nessuna posizione in questa società che vogliono un cambiamento. […] Basta con i centri commerciali basta con lo sfruttamento del lavoro, basta con il governo delle grandi lobby politico economiche. Vogliamo ritornare tutti al voto per una nuova forma costituzionale. […] E’ inutile che si costruiscano teoremi sul versante ideologico di ciò che sta succedendo. Non è semplice ideologia, è rabbia e molte persone sono coinvolte; anche chi ha spesso evitato la protesta per paura. Oggi sta succedendo una cosa inaspettata; la protesta sta montando.

Il primo Ministro ha stigmatizzato come violenti e ben poco democratici i manifestanti, giustificando l’operato delle forze dell’ordine che possono forse a volte esagerare ma si sacrificano per ristabilire semplicemente l’ordine democratico del paese e devono essere pronte a una risposta forte se la situazione degenera. I cittadini scesi in piazza non hanno neanche commentato, non c’è tempo per il bla bla del potere; è più importante andare avanti lasciando il spazio a una sola semplice nota diffusa sul sito della piattaforma Müştereklerimiz che dice:

“La resistenza per il parco di Gezi ha infiammato la capacità di gente come noi di autorganizzarsi e agire, […] abbiamo visto il corpo della resistenza stendersi verso di noi lungo il ponte del Bosforo, abbiamo visto il suo coraggio mentre combatteva per respingere gli idranti su Istiklal. Abbiamo visto le sue braccia in tutti quelli che, piegati da un’orgia di lacrimogeni, lottavano per mettere i compagni in salvo; abbiamo visto il corpo della resistenza in ogni negoziante che ci ha offerto il cibo, in ogni dottore sceso in strada per soccorrerci, in tutti quelli che hanno aperto la casa ai feriti, nelle nonne rimaste sveglie alla finestra a sbattere pentole tutta la notte contro la repressione. La polizia ci aveva dichiarato guerra ma non è riuscita a spezzare quel corpo. Ha finito le scorte di lacrimogeni contro di noi, ci ha gassati nei tunnel della metro, è venuta di notte a darci fuoco nelle tende, ha usato i proiettili di gomma. Ma era bastata una scintilla per accendere il corpo della resistenza che ormai può solo continuare”.

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