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giovedì 6 giugno 2013

la primavera della Turchia e l’ironia della storia


Limes Oggi


Erdoğan, la primavera della Turchia e l’ironia della storia

di Lucio Caracciolo






RUBRICA IL PUNTO Le proteste nate per difendere il Gezi Park di Istanbul mettono in discussione lo stile dittatoriale e l'agenda di un premier che, al potere da oltre 10 anni, non ha avversari credibili. Non è solo laici vsislamisti. Il confronto con Asad. [Pubblicato su la Repubblica il 6/6/2013]

Gezi Park è solo un pretesto


[Carta di Laura Canali]
Il marchio “primavera” non porta bene.

Da Praga a Damasco, passando per Tunisi, Il Cairo e Bengasi, evoca enormi aspettative e risultati deludenti, contraddittori, spesso tragici. Ma se c’è un paese in fermento dove tale slogan può avere qualche senso, ebbene questo è la Turchia.

Se “primavera” vuol dire risveglio di una popolazione consapevole dei propri diritti e stufa di governanti autoritari o paternalisti, non v’ha dubbio che quanto sta accadendo a Istanbul, Ankara e decine di altre città turche risponda a questa definizione.

Recep Tayyip Erdoğan è da quasi undici anni il capo democraticamente eletto del governo di una potenza in ascesa da quasi ottanta milioni di abitanti, che fino allo scorso anno ha avvicinato le performance economiche dei Brics, gode (e soffre) di una collocazione geopolitica cruciale fra Medio Oriente, Russia, Europa e Mediterraneo, è un nostro alleato chiave in ambito Nato e non nasconde (forse troppo) vaste ambizioni d’influenza regionale e globale.

Il leader del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), nel quale confluiscono varie correnti islamiste, il più delle quali moderate, può vantare di aver modernizzato un paese instabile e tuttora segnato da visibili sacche di arretratezza, di aver sedato con polso fermo le velleità golpiste delle Forze armate, un tempo prevalenti sui poteri politici, di aver esplorato con coraggio il sentiero della pace con la minoranza curda.

Da qualche tempo però, come capita a chi resta troppo a lungo al timone, Erdoğan ha perso il senso della misura. Il suo stile di governo ricorda quello di un dittatore - o aspirante tale - che consulta solo se stesso. Quasi un nuovo sultano, dai modi sprezzanti, incapace di capire e di farsi capire da buona parte della sua gente, compresi diversi elettori e militanti dell’Akp.

Un leader che secondo i suoi critici intende rovesciare le basi laiche dello Statofondato nel 1923 da Kemal Atatürk per affermare la sua idea islamica della società e delle istituzioni. E pretende di imporre ai cittadini turchi un treno di vita piuttosto rigido e regolamentato, con misure largamente impopolari - soprattutto sulla scena metropolitana di Istanbul e nelle più ricche regioni costiere - come la limitazione nel consumo di alcolici.

Quando nella notte fra il 30 e il 31 maggio la protesta di alcune migliaia di dimostranti contro la “ristrutturazione” del Gezi Park si è trasformata da raduno ambientalista in manifestazione contro il “dittatore fascista” ed è stata repressa con esibita violenza dalla polizia, la scena politica turca è entrata in fibrillazione.

Non che la leadership di Erdoğan sia oggi in questione, né che le sue prospettive politiche ed elettorali siano compromesse. Il consenso per lui e il suo partito resta forte soprattutto nell’Anatolia profonda, anche se la sua baldanzosa sicumera - “porterò in piazza un milione di miei sostenitori ogni centomila mobilitati dagli estremisti” che lo contestano - appare ad oggi poco fondata. Tanto che dall’interno stesso del suo partito e del governo si levano pubblicamente voci che lo invitano a calmare i toni, a considerare le obiezioni dei manifestanti, a riportare la polizia nelle caserme.

Il presidente Abdullah Gül, suo antico sodale, ha preso le distanze dalla retorica del primo ministro. E persino alcuni giornali in genere inginocchiati davanti a Erdoğan ne hanno criticato le megalomanie urbanistiche e denunciato la mano dura delle forze di sicurezza, mentre l’influente Hürriyet titolava sulla “sconfitta” del “non più onnipotente” capo del governo.

Sarebbe semplicistico classificare lo scontro in atto solo come espressione della frattura laici/islamisti. Certo, il principale partito di opposizione, il neokemalista Chp, ha cercato di cavalcare la protesta. Ma fra le centinaia di migliaia di persone scese in piazza anche nelle roccaforti dell’Akp, come Konya e Kayseri, oltre alla stessa Ankara, c’erano manifestanti d’ogni colore, dagli islamo-ecologisti alla sinistra radicale o moderata, dai curdi agli aleviti fino ai seguaci del piuttosto esoterico movimento di Fethullah Gülen, classificato come islamico temperato.

Sicché l’obiettivo di Erdoğan - riformare in senso presidenziale le istituzioni e farsi eleggere capo dello Stato - non è più così a portata di mano come poteva sembrare fino alla scorsa settimana. Allo stesso tempo, non è emersa un’alternativa credibile all’egemonia dell’Akp. Tanto meno si profila all’orizzonte un leader della statura di Erdoğan.

Ironia della storia: il leader turco che due anni fa cercava inutilmente di convincere l’allora “fratello” siriano Bashar al-Asad ad ascoltare la voce del popolo e a inaugurare una stagione di riforme, oggi sembra incapace di capire le ragioni di chi gli si oppone. E mentre al-Asad resiste armi in pugno contro ribelli che in molti casi fanno riferimento ad Ankara, Erdoğan non appare più intoccabile.

Forse le sue ambizioni geopolitiche e la sua idea di Turchia sono morte a Gezi Park?Presto per stabilirlo. Di certo la rivolta in corso ha esposto i limiti di un capo fin troppo battagliero e carismatico, che sognava un impero a propria immagine e somiglianza, in cui specchiare il suo formidabile ego.

Un sogno che per molti turchi, non solo laici, era e rimane incubo.


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