spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

giovedì 4 luglio 2013

RENZI MI CANDIDO SENZA PERMESSO

La nuova Renzinomics e il dibattito interno al Pd

le correnti interne e le lotte intestine minano la oramai poca compattezza del
partito






La Grande Crisi e il dibattito sull'austerità in corso in Europa stanno mettendo in discussione le vecchie certezze anche all'interno di quella parte della sinistra più legata all'eredità della “Terza Via” di Tony Blair. Alcune riflessioni sul “nuovo corso” economico di Matteo Renzi. 

di Emilio Carnevali

La cattiva notizia è che il Partito democratico appare intenzionato ad incamminarsi verso il proprio congresso nel solito clima di lotte intestine, polemiche interminabili, faide correntizie, stucchevoli personalismi, snervanti tatticismi e infantili dispute statutarie. La buona notizia è che questa è solo una parte della verità. Non è del tutto esatto, infatti, che dall'attuale dibattito siano assenti i grandi temi della Politica, le questioni cruciali sulle quali gli uomini e le donne della sinistra italiana ed europea dovrebbe interrogarsi – e discutere... e dividersi e litigare, ci mancherebbe – nell'Anno Sesto dallo scoppio della Grande Crisi, l'Evento del nostro tempo.

I giornali – e soprattutto le televisioni – sono tendenzialmente più interessati alle scaramucce quotidiane – dotate di una presunta maggiore “notiziabilità” – che all'approfondimento sui contenuti. Tanto più se questi ultimi sono veicolati da documenti di oltre 50 pagine, inframezzate da numeri, tabelle, grafici, oltre che da riflessioni di respiro insolitamente ampio, difficilmente catturabili da quella dittatura dell'istante che detta tempi e regole al nostro dibattito pubblico.

Ha perfettamente ragione Matteo Renzi quando, il giorno dopo l'uscita della sua intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, ha fatto notare: «Alla Faz ho rilasciato un'intervista da quattro colonne, in cui parlavo di Europa e lavoro. Sui giornali italiani sono finite due righe sulle primarie del Pd e sulla norma statutaria del Pd che dice che chi vince il congresso è il candidato leader». 

Potrebbe dire la stessa cosa Gianni Cuperlo a proposito delle tante iniziative alle quali sta prendendo parte in giro per l'Italia, presentando la sua candidatura alla segreteria del Pd. Lo scorso 29 maggio, a Bologna, Cuperlo è intervenuto ad un incontro dal titolo “L'Italia e l'Europa ad un bivio: le responsabilità della politica” Dei 52 minuti di una densa ed appassionata relazione è rimbalzata sulla stampa solo l'efficace frase sul partito che non può essere considerato un «trampolino per altri incarichi». Frase “giornalisticamente” accattivante perché funzionale ad alimentare il gioco di punzecchiature e provocazioni quotidiane con il rottamatore Renzi. 

Intendiamoci: non c'è nessun complotto del mondo dei media (come credono ci sia, ad esempio, i parlamentari Cinque Stelle a loro danno). Se mai siamo di fronte alla risultante della combinazione di fattori diversi, non ultimo una certa ibridazione fra informazione e intrattenimento che è ormai penetrata anche nelle abitudini di “consumo” di larga parte dei fruitori di giornali, internet e tv.
Resta il fatto che quei documenti, quegli incontri, quei dibattiti sono importanti per capire dove sta andando davvero il principale partito della sinistra italiana in un momento particolarmente tribolato della propria storia (e della storia del nostro Paese). 

In un precedente articolo ci siamo già occupati della “memoria” presentata dall'ex ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca (“Un partito nuovo per un buon governo”). 
Sul “fronte Renzi”, invece, prosegue il graduale riposizionamento del sindaco di Firenze cominciato all'indomani della sconfitta alle primarie contro Pierluigi Bersani. Forse ha voluto esagerare un po' l'ex “giovane turco” Matteo Orfini quando – in un'intervista rilasciata al Corriere della Sera – ha dichiarato che «Renzi dice adesso cose che noi sosteniamo da tempo».
Non si può negare, comunque, che da politico intelligente, pragmatico e dichiaratamente “antideologico” quale è Renzi (più maliziosamente alcuni suoi detrattori lo definiscono “opportunista”), il sindaco di Firenze si muove all'interno di una piattaforma politico-programmatica non particolarmente rigida. 

Non è estraneo alle novità intervenute nell'ultima fase il cambiamento di “mood” che ha attraversato tutto il dibattito europeo a proposito delle politiche di austerità. «È raro che i dibattiti economici si concludano con un ko tecnico», ha scritto il premio Nobel per l'economia Paul Krugman. «Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori dell’austerità si avvicina molto a un simile esito». A finire al tappeto sono stati, fra gli altri, alcuni guru del “liberismo di sinistra” come Alberto Alesina, autore con Giavazzi del celebre e fortunatissimo pamphlet che per diverso tempo ha costituto la Bibbia del renzismo ante litteram. 
Ora Renzi non sembra più molto intenzionato a camminare solo lungo l'asse ideale che vede ai due vertici Pietro Ichino (oggi in forza a Scelta Civica di Mario Monti) e Luigi Zingales (fresco delle note disavventure della lista Fare di Oscar Giannino), già in passato suoi “ispiratori”. 
Il documento scritto dall'attuale consigliere economico del Rottamatore, l'ex McKinsey e deputato del Pd Yoram Gutgeld, si intitola significativamente “Il rilancio parte da sinistra”.

In questo testo non viene meno la cifra fondamentale con la quale Renzi ha voluto contraddistinguere il proprio messaggio di rottura. L'obiettivo rimane quello di una potente “modernizzazione” in chiave liberale del sistema Italia (lotta alle corporazioni, “efficientamento” della pubblica amministrazione, semplificazioni, sburocratizzazione, emancipazione dai veti sindacali). Appaiono però fortemente smorzate le accelerazioni più marcatamente “liberiste”. 

Molta attenzione è dedicata al tema dell'equità: «È paradossale che il paese europeo con il partito comunista storicamente più forte sia anche il paese più iniquo. Primo esempio: quasi 60% degli assegni di accompagnamento per non autosufficienza va al 50% più ricco», si legge nella pagina di apertura del documento. Per questo c'è bisogno di una «sinistra che rivendica con orgoglio lo Stato sociale, anche come uno strumento di sviluppo economico». In maniera ancora più esplicita si legge nel testo che «il modello dello Stato che governa, finanzia e regola la sanità, l’istruzione e il welfare è un modello vincente. Ogni anno spendiamo per la prevenzione e le cure delle malattie circa il 9% del Pil. Gli americani ne spendono il 17%, quasi il doppio» e per un servizio – aggiungiamo noi – i cui limiti di copertura gettano un'ombra sulla stessa concezione della cittadinanza propria della democrazia americana (almeno fino alla riforma varata dal presidente Obama): «Il libero mercato non produce in questo caso efficienza», conclude Gutgeld.

Molta importanza è anche conferita alla lotta all'evasione fiscale. In una recente intervista rilasciata a Claudio Cerasa del Foglio, il consigliere economico di Renzi ha concesso un riconoscimento incondizionato dell'operato dell'ex ministro Vincenzo Visco (detestato a destra e non troppo amato nemmeno negli ambienti più “business friendly” della sinistra riformista): «Dovremmo mettere un suo mezzo busto in tutte le piazze d’Italia». 

“Il rilancio parte da sinistra”, inoltre, va ben oltre le ricorrenti argomentazioni di carattere “etico-civile” e di giustizia distributiva legate alla questione evasione. Il cuore del ragionamento rimanda ad una critica dell'arcaicità di interi settori del nostro sistema produttivo bisognosi del “dumping dell'illegalità” per competere tanto in Italia quanto all'estero. Si tratta di un approccio al tema che è poco battuto anche all'interno della sinistra più radicale, la quale si trova spesso a indulgere nella retorica tradizionalista e neolocalistica da “piccolo e bello”, da “paradiso perduto”, indebita trasposizione di suggestioni pasoliniane nell'analisi di un declino economico che è privazione di “libertà sostanziale” per una fetta sempre crescente della popolazione italiana. 

Da questo punto di vista il discorso sviluppato da Gutgeld può trovare punti di inedita sintonia con diverse impostazioni di matrice classico-keynesiana. Ne è un esempio di particolare interesse un passaggio del recente volume di Vladimiro Giacché “Titanic Europa” (Aliberti editore): «È bene precisare», scrive Giacché, «che il problema dell'evasione fiscale, a differenza di quanto comunemente si ritiene, non rappresenta un problema etico, ma un nodo cruciale per la modernizzazione del sistema economico italiano. L'evasione non è soltanto “la madre di tutte le illegalità”, ma il punto di confluenza di aspetti economici cruciali che vanno dalla redistribuzione del carico fiscale (oggi enormemente squilibrato ai danni del lavoro dipendente), all'eliminazione di distorsioni alla concorrenza, dal rafforzamento della competitività di sistema alla concentrazione dei capitali (terreno sul quale l'Italia è in forte ritardo anche grazie alle rendite di posizione garantite dall'evasione)».

Partendo dalla centralità della questione evasione Gutgeld ricava il nocciolo duro di quella che dovrebbe essere la constituency della sinistra del futuro: l'unione fra gli “onesti” e i “poveri”. Costituency che andrebbe contrapposta ovviamente a quella della destra, descritta efficacemente da Pierfranco Pellizzetti come una sacra alleanza fra “abbienti” ed “impauriti”.

Ma è proprio nel discorso sulla povertà che si possono individuare gli elementi di maggiore debolezza del discorso di Gutgeld, e con esso della nuova versione della “Renzinomics”. Un assaggio ci era stato dato sin dal sottotitolo del documento in esame: “Come far ridere i poveri senza fare piangere i ricchi”.

In questo tipo di atteggiamento si coglie l'eco delle posizioni di larga parte del “progressismo economico mainstream” contemporaneo, che vede nella lotta alla povertà e non alla disuguaglianza il vero problema sul quale dovrebbero concentrarsi le politiche pubbliche. Secondo Alan Krueger, il capo dei consiglieri economici di Obama, «i poveri hanno un disperato bisogno di migliorare le loro condizioni materiali in termini assoluti piuttosto che di salire nella distribuzione dei redditi. Quindi sembra decisamente preferibile concentrarsi sull'impoverimento piuttosto che sulla diseguaglianza. E non c'è alcun dubbio che la crescita riduce l'incidenza della povertà».

Una critica molto acuta delle tesi appena accennate è stata sviluppata dall'economista Maurizio Franzini in un recente saggio pubblicato sull'Almanacco di economia diMicroMega (“La disuguaglianza? No problem!”. Altri approfondimenti dello stesso autore si possono trovare nel volume “Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili” - Università Bocconi Editore - e in diverse pubblicazioni scientifiche). Con riferimento ad una presunta preferenza sociale per la disuguaglianza Franzini cita innanzitutto gli esperimenti condotti negli ultimi anni dai cultori dell'economia comportamentale. Molte prove si sono accumulate della «diffusa presenza di una significativa avversione alla disuguaglianza»: «i singoli tendono a valutare il proprio reddito non soltanto in senso assoluto ma anche in termini relativi e se la loro posizione migliorasse in termini assoluti ma peggiorasse in termini relativi, potrebbero rinunciare a quel miglioramento». 

Quanto poi all'argomentazione secondo la quale bisognerebbe puntare a ridurre le disuguaglianze delle opportunità piuttosto che quelle nei redditi, Franzini osserva che «i dati di cui oggi disponiamo dimostrano che i Paesi in cui è più elevata la disuguaglianza nei redditi sono anche quelli dove è maggiore l'influenza delle condizioni economiche della famiglia di origine sui risultati che ciascuno riesce a conseguire, anche in termini di reddito da lavoro» (sulla correlazione fra disuguaglianza corrente e sua trasmissione intergenerazionale vedi anche il saggio di Michele Raitano “Di padre in figlio: l'Italia feudale”, contenuto anch'esso nell'Almanacco di economia di MicroMega 3/2013). 

Molto si potrebbe ancora aggiungere sul rapporto fra disuguaglianza e qualità della democrazia, sulla fondatezza della teoria del trickle-down (la crescita produce benefici dei quali tutti, inclusi i più poveri, beneficiano) e su tanti altri argomenti che sono in genere utilizzati dai fautori della lotta alla povertà “in contrapposizione” alla lotta alla disuguaglianza.
Ma tornando al nostro discorso sulla Renzinomics resta senz'altro positiva la maturazione in corso della strategia politica del sindaco di Firenze, che continua ad essere la personalità del centro-sinistra più capace di attrarre consensi anche fuori dal proprio campo. 

Permangono invece fondati dubbi sulla opportunità che Renzi si candidi alla leadership del Pd e non direttamente alla testa della futura coalizione di centro-sinistra. Tutti avrebbero da guadagnare da una “divisione dei compiti” che permetterebbe di dare spazio a progetti complementari in grado di parlare a settori diversi del Paese. Piaccia o no, il Pd è l'ultimo partito radicato sul territorio che è rimasto in Italia: ridurlo ad un “mega comitato elettorale” sarebbe l'ennesimo errore ispirato da un malintesto “spirito del tempo”. 

Qui, però, rischiamo di uscire dalle rarefatte atmosfere della teoria politica per gettarci a capofitto nel mondo assai meno affascinante delle quotidiane e stucchevoli diatribe su organigrammi, regole, codicilli, correnti, con annessi e connessi di meschinità assortite. Le risparmiamo ai nostri lettori, fin qui già troppo pazienti: certamente non mancheranno loro tanti altri luoghi dove poterle seguire. 


(4 luglio 2013)

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