spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

mercoledì 19 giugno 2013

SBILANCIAMO L'ECONOMIA

Le sinistre di fronte alla crisi




La crisi economica scoppiata nel 2008 ha contribuito a riaprire la discussione sull'identità e il profilo programmatico della sinistra. Nel libro "Sbilanciamo l'economia" di Marcon e Pianta – e nel successivo dibattito avviato da Michele Salvati – alcuni spunti utili ad una riflessione oggi più che mai necessaria. 




Fa sorridere pensare a quale sia stata la reazione di Matteo Renzi all'intervista rilasciata qualche giorno fa da Flavio Briatore al Fatto Quotidiano. Alla domanda di Beatrice Borromeo sulla possibilità che il suo endorsement faccia perdere voti al sindaco di Firenze, Briatore ha risposto: «Al contrario: quelli che odiano me e la gente come me non voterebbero comunque per Renzi. Sono le vecchie mummie della sinistra vera. Invece il sindaco può pescare tra l’elettorato sia di Berlusconi sia di Grillo». Per quanto “innovative” possano essere le idee di Renzi, non deve avergli fatto piacere essere implicitamente etichettato dal suo amico-gaffeur come esponente di una supposta «finta sinistra» contrapposta alla «vera sinistra», sia pure costituita, quest'ultima, da «vecchie mummie».

Non a caso Michele Salvati, che è un intellettuale raffinato e come tale capace di usare le parole molto meglio del fondatore del Billionaire, ha voluto definire il recente libro di Mario Pianta e Giulio Marcon (Sbilanciamo l'economia. Una via d'uscita dalla crisi, Laterza, pp. 173, euro 12) come «un’ottima rassegna su che cosa pensa l’estrema sinistra pensante». Il termine “estrema” – evocativo di atteggiamenti ispirati ad una scomposta ed eccessiva concitazione (sia pur temperato dal riferimento al “pensiero”) – è senza dubbio più utile e funzionale ad una controversia intellettuale. Anche perché in questo caso la sinistra “propriamente detta”, “non estrema” – insomma: la sinistra “vera” – sarebbe quella di chi muove le critiche (Salvati) e non quella di chi le riceve (Marcon e Pianta).

Ma la disputa nominalistica rischia di essere sterile. Il termine sinistra – com'è noto – nasce storicamente in seno alla Rivoluzione francese. Per la precisione all'interno dell'Assemblea nazionale costituente, quando negli ultimi giorni dell'agosto 1789 i delegati si trovarono a pronunciarsi sul “veto regio”. «È degno di nota», annotava allora Adrien Duquesnoy sul suo Journal, «che l'aula si sia divisa in modo che, da una parte, siedono gli uomini che, talvolta, certo, hanno opinioni esagerate, ma che, in genere, hanno della libertà e dell'uguaglianza un'idea molto alta...». Come si vede il legame fra la sinistra e l'accusa di “esagerazione” è molto antico. D'altra parte non esiste una dimensione “sostanziale” del concetto di sinistra: si è sempre di “sinistra” in un certo contesto storico e rispetto a qualcuno (cioè a una “destra”). È molto difficile distillare una “quintessenza” della sinistra valida in ogni tempo e in ogni luogo. 

Da questo punto di vista si può anche accettare la definizione di Salvati, se per “estrema sinistra” si intende qualcosa “a sinistra” di ciò che lui stesso – e con lui, oggettivamente, gran parte dell'establishment politico-mediatico che plasma le categorie condivise del discorso pubblico – considera “sinistra”. 

A parere di chi scrive, tuttavia, è molto più interessante ragionare sul merito delle questioni. 
Salvati rimprovera a Marcon e Pianta una scarsa attenzione al rigore di bilancio, vincolo con il quale – volenti o nolenti – dobbiamo fare i conti dato l'attuale recinto delle politiche europee. Rimando all'intervento degli autori per chi volesse conoscere la loro replica sul punto. Qui mi limito ad osservare che in questo momento le economie europee si trovano ad affrontare una drammatica carenza di domanda aggregata. Chi considera i vigenti vincoli di bilancio assolutamente insuperabili dovrebbe essere il primo a schierarsi a favore di un'ambiziosa e “radicale” politica di redistribuzione della ricchezza, come quella delineata da Pianta e Marcon nel loro libro. Sarebbe così possibile fornire un po' di ossigeno al sistema riavviando i consumi, dal momento che, come tutti sanno, la propensione al consumo dei redditi più bassi è molto maggiore di quella dei redditi più elevati. Con i consumi verrebbe rivitalizzata la domanda complessiva, in un tempo in cui si può fare un affidamento solo limitato sulle esportazioni verso i paesi dell'eurozona parimenti in crisi e – stando alla visione dei sostenitori dell'austerità – non è possibile contare sugli investimenti pubblici. 

Tutto ciò al netto di questioni di “giustizia”, che pure dovrebbero essere care a “qualsiasi” sinistra, moderata o radicale che sia. L'inadeguatezza del nostro apparato pubblico – la cui denuncia sta molto a cuore a Salvati, e a ragione – è ben riassunta dal dato secondo il quale l'Italia non è solo uno dei Paesi più “diseguali” nei redditi di mercato (cioè prima delle tasse e dei trasferimenti). Ma lo è anche dopo gli interventi dello Stato, evidentemente troppo limitati oltre che inefficienti: «Se consideriamo tutte queste correzioni», scrivono Pianta e Marcon, «troviamo che le disuguaglianze scendono notevolmente in quasi tutti i paesi europei – il paese più egualitario è la Svezia –, tranne che nel nostro paese: l'Italia resta uno dei più diseguali d'Europa, superato soltanto da Estonia, Grecia e Portogallo. La Gran Bretagna, nonostante decenni di tagli al welfare, continua a redistribuire molto più di noi e arriva ad avere minore disuguaglianza che in Italia. Qui c'è una buona notizia: la politica, se vuole, è molto efficace nel redistribuire i redditi in modo egualitario».

L'altro tema sul quale si concentrano le osservazioni di Salvati riguarda il cosiddetto lato dell'offerta. «Non c’è politica macroeconomica», scrive il direttore della rivista del Mulino, «che possa porre rimedio al fatto elementare che sono i risultati della capacità produttiva e competitiva di un paese quelli che determinano la sua ricchezza e il benessere dei suoi cittadini».

Ora: è verissimo che il nostro sistema produttivo presenta evidenti limiti, strozzature, difetti, fra i quali – solo per citarne un paio fra loro correlati – gli scarsi investimenti in innovazione e ricerca e la ridotta dimensione delle aziende. Ma su questo non credo che la visione di Pianta e Marcon sia da considerare alternativa a quella di Salvati. A tal proposito potrebbe essere utile ricordare il prezioso insegnamento di un economista non certo riconducibile all'“estrema sinistra” come Alfred Marshall, che già nel lontano 1895 faceva presente come «il lavoro ben pagato è generalmente efficiente e quindi non troppo costoso». Ai giorni nostri, nel mezzo di un passaggio storico che ci interroga su quale debba essere la “vocazione produttiva” del nostro Paese nella divisione internazionale del lavoro, è bene tenere conto del fatto che la qualità del lavoro passa anche per un rinnovato riconoscimento di ruolo, dignità e centralità politica del lavoro stesso. Su questo la sinistra cosiddetta riformista o moderata dovrebbe fare qualche autocritica. 

L'accento posto sull'assoluta priorità da accordare alle “riforme strutturali” accomuna la prospettiva di Salvati a quella degli attuali vertici della Commissione europea. Dopo il tempo della necessaria ma insufficiente austerità, ci viene detto, è giunto il momento delle riforme strutturali. Solo così l'economia potrà tornare a crescere e a generare posti di lavoro. 

Ha osservato l'economista di Harvard Dani Rodrik che tali riforme «aumentano la produttività in pratica attraverso due canali complementari. Il primo: i settori a bassa produttività tagliano sulla manodopera. Il secondo: i settori ad alta produttività espandono e assumono più manodopera. Entrambi i processi sono necessari per far sì che le riforme aumentino la produttività a livello dell'intero sistema economico». «Ma quando la domanda aggregata è depressa – come nel caso della periferia europea – il secondo meccanismo, alla meglio, funziona a fatica». 

Si potrebbe aggiungere che quel «alla meglio» è fin troppo generoso. Ecco dunque che ritorniamo al nostro problema iniziale: quello del rilancio della domanda. Questo è il punto della questione, il vero «topo da catturare» a dispetto di qualsiasi «colore del gatto». In fondo Deng Xiaoping dovrebbe piacere ai liberal-riformisti di ogni tendenza...

(18 giugno 2013)

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