spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

lunedì 17 giugno 2013

SICILIA, UN POSSIBILE INVESTIMENTO CINESE NEL SETTORE AUTO.

Il modello Sicilia non esiste


di Piero Messina
L’adesione a corrente alternata alle sorti di un governo, che prima si chiamava trasformismo, oggi assurge ad esempio. La vittoria dell'M5S e la presidenza Crocetta. L'inasprimento dei rapporti tra Regione e Usa per la base di Niscemi. I futuri investimenti cinesi.


[Carta di Francesca La Barbera]
Dire la stessa cosa non è mai la stessa cosa. La maggior o minor consistenza del presunto “modello Sicilia” ruota attorno a questo elementare principio che appartiene alla logica ancor prima che alla linguistica.

Sarebbe bastata questa semplice riflessione per comprendere che quell’ipotetica alleanza tra centro-sinistra e Movimento 5 Stelle in Italia si basava sulla primazia dell’effetto mediatico e non avrebbe avuto vita facile.

Il primo a parlare di Sicilia come modello è stato Beppe Grillo. Seguito immediatamente a ruota dal presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta. Ma il riferimento del comico ligure prestato alla leadership politica non verteva su uno scenario di alleanza, piuttosto mirava a consolidare nell’immaginario dell’opinione pubblica il risultato ottenuto dall'M5s alle elezioni regionali in Sicilia nell’ottobre del 2012, con la nomina di una consistente pattuglia di deputati al parlamento siciliano.

Quei 15 parlamentari eletti tra le fila del Movimento 5 Stelle erano diventati modello - basta rileggere le dichiarazioni del loro leader - per la capacità di orientare e condizionare le scelte, le strategie e le votazioni in aula, infine, del governo siciliano presieduto da Rosario Crocetta.

La consustanziazione di quei deputati a “modello” è legata a un momento politico particolare.

“Il modello Sicilia è meraviglioso”, dirà Beppe Grillo, ai microfoni di La7 nei giorni successivi alle elezioni politiche di febbraio 2013, spiegando come i suoi deputati eletti all'Ars (l’Assemblea regionale siciliana) non facciano parte della maggioranza, né del governo Crocetta, ma i loro voti siano determinanti per il sostegno a specifici provvedimenti amministrativi e legislativi.

Grillo ne sottolinea due: il voto favorevole della sua compagine al Documento di programmazione economica e finanziaria per la Sicilia reso soltanto dopo aver ottenuto un no - seppure provvisorio e per certi aspetti aleatorio - al Muos, il sistema radar che la marina statunitense sta completando a Niscemi, nel centro della Sicilia.

Un perfetto gioco a incastro. I Cinque stelle votano il documento finanziario, dopo aver ottenuto un più o meno plausibile stop amministrativo ai lavori del radar della marina statunitense. Oltretutto Grillo, alle elezioni politiche nei collegi siciliani, ha praticamente raddoppiato i consensi ottenuti soltanto 5 mesi prima per il voto regionale: in Sicilia, l'M5s è ormai il primo partito con oltre il 30% dei consensi. In piena bagarre post voto per l'ingovernabilità al Senato dove, dopo le elezioni politiche, per il presidente siciliano non c'era una maggioranza possibile e lo schema di sostegno proposto dal leader dei Cinque stelle verrà percepito dalle forze politiche del centrosinistra come una possibile via d'uscita dall'impasse.

Chiamato direttamente in causa, Crocetta, che alle elezioni politiche ha fatto debuttare nei collegi siciliani il suo movimento politico “Megafono” quale costola del Partito democratico, rilancerà la posta, sostenendo non solo la primogenitura del “modello Sicilia" per gli interventi strutturali annunciati sui conti e sugli assetti economici del bilancio regionale, ma rivendicando addirittura di essere lo sceneggiatore di quella trama politica, con la sua regione marchiata positivamente con “sette stelle”. Due in più dei grillini.

Sul piano delle relazioni politiche, la “non” alleanza tra Crocetta e il Movimento 5 Stelle è durata in realtà appena un battito di ciglia. Dopo avere sostenuto insieme, alla fine di marzo, la legge per l’abolizione delle province in Sicilia, norma che ha consentito a tale modello di catturare per l’ennesima volta l’attenzione dei media nazionale, il percorso politico tra la maggioranza naturale che sostiene Crocetta (Pd, Udc, Megafono e liste autonomiste) e il movimento dei grillini ha subito un brusco stop sulla maratona parlamentare. Questa ha portato all’introduzione nell’isola del doppio voto di genere e la designazione dei tre grandi elettori che l’Assemblea regionale siciliana deve designare per partecipare alle sedute comuni del Parlamento nazionale, chiamato ad esprimersi sulla nomina del presidente della Repubblica. Quelle due votazioni per i grandi elettori siciliani si sono svolte con il sostegno del Pdl siciliano a Crocetta e con la dura opposizione dei 15 deputati grillini. I "cinque stelle" avrebbero voluto mandare un loro esponente alle votazioni per il Quirinale.

La mancata assegnazione di un seggio da grande elettore è suonato come un de profundis per il modello Sicilia alla 5 Stelle e un messaggio alla segreteria nazionale dei democratici per un governo di larghe intese in campo nazionale. E così in effetti è stato.

Ma soltanto chi non ha memoria della storia parlamentare italiana “trial and error” potrebbe stupirsi.

La prassi politica, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, è colma di procedure simili a quanto Grillo e Crocetta propongono come menù innovativo. Prima veniva bollata come “trasformismo”, oggi l’adesione a corrente alternata alle sorti di un governo assurge a “modello”. Quindi, sul piano concettuale l’accezione “modello” coniugata con Sicilia altro non è che un coperta stiracchiata che ogni competitor politico decide di utilizzaread usum delphini per certificare apoditticamente la bontà delle proprie idee e delle proprie strategie.

Assurto a terapia salvavita del sempre più debole quadro istituzionale dell’Italia di oggi, il modello Sicilia in realtà - sul piano delle opzioni politiche concrete e di una sana dialettica che porti al confronto delle forze politiche - non esiste, proprio perché etereo e variabile. Più che un continuum politico o un asset preciso di alleanze, il presunto modello è solo un concetto, un ideogramma quasi, da plasmare a piacimento per dimostrare la validità delle proprie teorie e confutare quelle degli avversari.

Prima di approfondire l’argomento, è necessario un breve excursus storico sulla velleità tutta sicula di ergere i propri confini della trattativa politica a “laboratorio” di riferimento per l’intero paese.

Con un salto indietro alla seconda metà degli anni Cinquanta ritroviamo alla guida del governo siciliano il modello “Milazzo”. Proprio in quel periodo, le sorti della Sicilia vennero guidate da Silvio Milazzo, il primo a strappare l’unità sancita quasi per diritto divino della potentissima Democrazia Cristiana di quel periodo.Con il suo movimento “Cristiano sociale”, Milazzo aprì le porte di Palazzo d’Orleans a una pattuglia di dissidenti del Partito Comunista Italiano, ampliando i confini della sua maggioranza ben oltre il limes della destra post fascista. Quell’esperienza pur breve, marchiata, come abbiamo già visto, dai detrattori con il bollo del trasformismo, riecheggia ancora oggi quale paradigma irrinunciabile di quei principi autonomistici che la Sicilia invoca e contrappone al federalismo urlato delle leghe nordiste.

Il secondo modello Sicilia di cui val la pena tracciare il ricordo è l’esperienza della Rete, il movimento dei sindaci, che tra i principali fondatori annovera Leoluca Orlando, che dalla fine degli anni Ottanta pone le basi per la liquefazione dei partiti tradizionali e anticipa il crollo della prima Repubblica.

A distanza di oltre vent'anni, l'isola aspira nuovamente al ruolo di laboratorio. Ma rispetto al passato, quali passi avanti sono stati fatti sul piano economico, sociale e istituzionale, per far sì che si possa certificare questa primazia della regione più controversa del sud d’Europa? Scorrendo rapidamente i fondamentali del sistema Sicilia poco o nulla lascia sospettare che quella porzione di territorio possa ergersi a punto di riferimento per il rilancio dell’Italia.

Con un livello di indebitamento istituzionale (regione, enti locali ed aziende sanitarie) che supera gli 8 miliardi di euro e un pil complessivo che si attesta sugli 85 miliardi, la Sicilia sconta un tasso di disoccupazione record tra tutte le aree europee, con punte che sfiorano il 50% tra i giovani e le donne in cerca di lavoro. Invertire la rotta non sarà semplice, anche perché gli aiuti strutturali e non che giungono dall’Unione europea non riescono ad attecchire, come se un virus misterioso impedisca alla burocrazia regionale di avviare una concreta azione di spesa a sostegno dell’economia e della società. Parte dei fondi destinati a colmare il gap con le altre aree del paese (i Fas, ad esempio, i fondi per le aree sottoutilizzate) va a nutrire le voci della spesa corrente (gli stipendi dell’esercito di oltre 20 mila forestali, ad esempio, che pesano per quasi 280 milioni di euro sul bilancio) e non viene investita in interventi concreti di sviluppo.

Si potrà obiettare che con Crocetta il vento sia cambiato. D’altronde, l’ex sindaco di Gela non avrebbe potuto risolvere le criticità accumulate in quasi 60 anni di gestione autonoma della regione siciliana, nel breve lasso tempo che sinora ha avuto a disposizione. È necessaria una breve riflessione sulle alleanze che hanno consegnato la Sicilia nelle sue mani: l’ex sindaco di Gela ed europarlamentare europeo del Pd è il terzo presidente eletto direttamente dai siciliani. I suoi due predecessori hanno interrotto il mandato in anticipo.

Nel gennaio del 2008 tocca a Salvatore Cuffaro, dopo quasi 7 anni di governo e due elezioni, gettare la spugna dopo una condanna in primo grado per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto d’ufficio. Anche Raffaele Lombardo si dimetterà in anticipo sulla scadenza naturale del mandato. Pur in assenza di condanna il leader del partito dei siciliani, lascerà Palazzo d’Orleans nel luglio del 2012, per difendersi al meglio, sosterrà, nella vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto a Catania, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nell’estate di quello stesso anno Crocetta lancerà la sua candidatura alla presidenza della Regione. Il suo motto è “la rivoluzione è già cominciata”.

Strano a dirsi ma la candidatura di Crocetta non verrà sponsorizzata immediatamente dal suo partito, il Pd, che avrebbe preferito celebrare le primarie, ma dall’Udc di Pierferdinando Casini. Quello del partito di ispirazione cattolica è un sostegno maturato lungo l’asse che lega Confindustria Sicilia e il suo presidente Antonello Montante all’ex sindaco di Gela.

Alle elezioni di ottobre in Sicilia, con un astensionismo record di oltre il 50% degli aventi diritto al voto, Crocetta ottiene il 30,5% dei voti e una pattuglia di 38 deputati, insufficienti per governare in un’aula che di deputati ne contiene 90. Da qui, la necessità di rompere gli schemi politici e avviare dialoghi oltre le etichette.

In pratica, il modello Sicilia è stata una scelta obbligata. I risultati ottenuti con l’alleanza a giorni alterni tra il governo di Crocetta e i grillini hanno raggiunto l’apice con la legge che prevede, per la prima volta in Italia, l’abolizione delle province, vera e propria pietra dello scandalo e paradigma assoluto di spreco e inefficienza burocratico e amministrativa.

Ma la Sicilia ha realmente abrogato le province? No. Lo Statuto della Regione, vera e propria carta costituzionale dell’isola, prevedeva sin dall’inizio la creazione di liberi consorzi tra comuni, organismi che in Sicilia sono stati definiti “province” per uniformarli al linguaggio politico amministrativo del paese.

La legge approvata ad aprile dal parlamento regionale siciliano commissaria i 9 enti provinciali che operano sul territorio, ferma ogni percorso elettivo (si sarebbe dovuto votare quest’estate) e rimanda a una legge di riordino per la creazione di nuovi liberi consorzi tra comuni e delle tre aree metropolitane di Palermo, Catania e Messina. Non c'è alcuna previsione normativa per il futuro dei dipendenti di quegli enti. L’unica certezza è che i liberi consorzi verranno formati con elezioni di secondo livello, quindi senza consultazione popolare, affidando a sindaci, giunte e consigli municipali la designazione dei componenti di questi nuovi enti. Si prevede di passare da 9 province a 30 consorzi di comuni. Ma per andare avanti, il governo guidato da Crocetta ha dovuto in un primo momento pescare tra gli ex fedelissimi di Cuffaro, Lombardo e Miccichè, dialogare con i Cinque stelle, per poi ampliare il suo buffet per la somministrazione di teoremi rivoluzionari, esattamente un attimo dopo la riconferma di Giorgio Napolitano al Quirinale, al pacchetto di parlamentari dell’area di centro destra.

Sul piano delle proiezione internazionale, il modello Sicilia che ha legato Crocetta e il Movimento 5 Stelle ha portato ad un inasprimento inaspettato con le delegazioni delle unità militari presenti sul territorio siciliano.Nonostante il continuo dispiego diplomatico operato dal console degli Stati Uniti a Napoli, Donald Moore, che più volte ha incontrato il presidente Crocetta, dalla vicenda del radar Muos in poi, la presenza delle truppe statunitensi in Sicilia viene percepita negativamente da buona parte della popolazione siciliana. I movimenti civici No Muos e anti guerra si sono moltiplicati come funghi nell’isola che è ancora oggi una piattaforma strategica per le attività statunitensi in Africa e Medio Oriente.

Sull’altare dei provvedimenti legislativi, Crocetta per ottenere il sostegno alle sue leggi da parte dell'M5S ha dovuto sacrificare un bel po’ delle relazioni tra Sicilia e Stati Uniti. Dopo avere annunciato più volte la revoca della autorizzazioni alla costruzione dell’impianto radar di Niscemi, a marzo di quest’anno, il governo siciliano ha provveduto a completare la pratica di stop alle antenne paraboliche progettate per i sistemi di telecomunicazioni della marina statunitense.

Una revoca che non tuttavia ha impedito la prosecuzione dei lavori. Il sito di Niscemi, infatti, è sottoposto ai princìpi della sicurezza nazionale e ai vincoli che legano il nostro paese all’Alleanza atlantica. La Regione Siciliana, come entità giuridica, non ha titolo per concedere o revocare autorizzazioni, se non quelle relative ai vincoli ambientali, connessi alla posizione specifica della stazione radar di Niscemi che insiste in un’area protetta.

Così, nonostante lo stop comunicato dalla presidenza della regione, i lavori per il completamento del Muos a Niscemi continuano, così come testimoniato da una nota del consolato americano di Napoli che sostiene come “il governo degli Stati Uniti è impegnato ad assicurare la salvaguardia della salute e la sicurezza di tutte le proprie installazioni sul territorio Italiano. Dal 2005, la Marina statunitense opera per garantire che la stazione di terra del Muos sia conforme a tutte le disposizioni applicabili in materia di salute e sicurezza, inclusi gli studi di sicurezza del sistema e sulle eventuali implicazioni per la salute.

Tali studi hanno dato esiti coerenti. Comprendiamo che alcuni residenti presso la località di Niscemi sono preoccupati per la sicurezza del sistema Muos e per tale motivo abbiamo apprezzato l’accordo tra il governo italiano e la Regione Siciliana di affidare a un organismo tecnico indipendente uno studio approfondito e in tempi brevi di valutazione dell’impatto sull’ambiente e sulla salute delle popolazioni interessate. Come descritto nello stesso accordo, il piano attuale prevede che l’installazione delle parabole non avverrà prima che siano disponibili i risultati di tale studio. Nel frattempo le predisposizioni presso il sito continueranno, ma le parabole non verranno posizionate prima di conoscere l’esito dello studio”.

I lavori, dunque continueranno. A maggior ragione dopo la presa di posizione del governo nazionale che tramite il dicastero della Difesa ha messo in mora la Sicilia per l’improvvido stop. Le carte sono ora nelle mani dei tribunali amministrativi e si annuncia un monumentale contenzioso, che alla fine avrà un solo risultato: screditare ancor di più il nostro paese agli occhi dei partner atlantici.

Altro fronte scoperto del modello Sicilia sul piano delle relazioni internazionali è quello con l’imprenditoria cinese. Si chiama “Progetto Ulisse” ed è il dossier sull’espansione cinese nel Sud Italia. Di quelle carte, mai rese pubbliche, ne hanno parlato docenti universitari e manager pubblici. Difficile stabilire se si tratti dell’ultima speranza per contrastare il processo di desertificazione industriale del Mezzogiorno o solo di una chimera. L’unica cosa certa è che dal secondo semestre del 2012 si sono intensificate le missioni in Italia degli esponenti del governo di Pechino: delegazioni della Commissione consultiva del popolo, della China Investiment Corporation (uno dei fondi sovrani più potenti del mondo) e di alcuni dei maggiori gruppi industriali cinesi, hanno fatto tappa nel nostro paese in preparazione di un possibile shopping miliardario.

Nel mirino sono finite infrastrutture strategiche come porti e aeroporti, siti industriali fermati dalla crisi economica e progetti ancora al di là da venire, o bocciati dal governo nazionale, come il ponte sullo Stretto di Messina.

Il possibile ingresso di capitali del Dragone per la costruzione dell’opera più contestata degli ultimi 30 anni farebbe parte di un progetto ancora più ampio che punta all’acquisizione, da parte dei gruppi cinesi, di una dorsale di infrastrutture nel Sud Italia che comprenderebbe i porti di Gioia Tauro e del Nord della Sicilia, le reti ferroviarie da Napoli in giù e il raddoppio della linea ferrata che collega Trapani alla città dello Stretto, passando per Palermo.

I manager cinesi avrebbero già incontrato più d’una volta i responsabili della Società Ponte sullo Stretto. Il primo rendez-vouz si sarebbe tenuto lo scorso 16 settembre a Messina, con l’arrivo di una delegazione della China Communication and Costruction, compagnia specializzata nella costruzione di ponti. Qualche settimana dopo, secondo la ricostruzione fornita da Enzo Siviero, docente dell’Università di Venezia e consulente dei grandi gruppi internazionali che si occupano di infrastrutture, i rappresentanti del colosso cinese avrebbero fatto un passo avanti, nel corso di un incontro tenutosi a Istanbul, consegnando al direttore generale della società Ponte sullo Stretto Giuseppe Fiamminghi un memorandum che certifica la loro disponibilità a diventare partner nel progetto di collegamento stabile tra Scilla e Cariddi. Il budget di spesa per lo shopping nel Sud Italia sarebbe senza limiti: oltre 100 miliardi da investire e la creazione di oltre 40 mila posti di lavoro.

Altro dossier sui possibili investimenti cinesi in Sicilia è quello relativo all’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese, ormai fuori dalla sfera produttiva del Lingotto da un paio di anni. Per prolungare Il sogno siciliano dell’automotive c’è una linea di continuità tra il vecchio e il nuovo governo della Regione siciliana. Il primo a credere nella possibilità di un ingresso di Chery a Termini Imerese per rilanciare la produzione di automobili è stato Raffaele Lombardo, che qualche giorno prima di dimettersi dichiarò di avere raccolto la piena disponibilità di Chery per il rilancio di quell’area industriale abbandonata da Fiat.

Anche Crocetta la penserebbe allo stesso modo. Ai sindacati che premono per avere risposte sul futuro di Termini Imerese avrebbe detto di essere pronto a volare in Cina per convincere i cinesi a investire in quello stabilimento. In realtà, esistono una serie di barriere che impediscono ancora oggi il coinvolgimento diretto di Chery nella produzione di auto in Sicilia. L’unica chance è affidare le chiavi dello stabilimento siciliano a Massimo Di Risio, il patron molisano della Dr Motor Company, dal 2006 partner strategico di Chery in Italia.

A far gola agli investitori cinesi in Sicilia c’è anche l’aeroporto di Comiso. Dopo aver riposto nel cassetto il sogno di costruire un hub a Centuripe, in provincia di Enna, le antenne dei manager cinesi si sono orientate verso lo scalo ragusano, che sino a oggi è stato soltanto uno scandalo a cielo aperto, costato alla collettività quasi 40 milioni di euro. Dal 2007 le piste dello scalo siciliano sono pronte per decolli e atterraggi, ma nessun aereo da lì ha mai preso il volo.

Un po’ come il modello Sicilia.

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