spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

giovedì 24 ottobre 2013

GRILLO LA DEMOCRAZIA VIEN DAL BASSO

Grillo, la democrazia vien dal basso

Dalla Francia al Brasile, dalla Danimarca all'Africa: il governo di partecipazione invocato dal M5s rafforza lo Stato. Ma deve coinvolgere i cittadini. Come conferma l'esperto Guihéneuf.

di Giovanna Faggionato
Sotto il cielo scuro di Milano, nella piazza del Duomo traboccante persone arrivate ad ascoltare il comizio di Beppe Grillo, il 19 febbraio un cartello sventolava in mano a un attivista del Movimento 5 stelle: «Laocrazia». Un termine politico vecchio e quasi arcaico. Dal greco: democrazia del popolo.
Ovvero un'utopia da contrapporre al presente, cioè alla democrazia rappresentativa che impone di delegare le decisioni a qualcun altro. Un sistema che in Italia ha prodotto l'effetto collaterale della Casta.

IL RADICAMENTO DELLA DEMOCRAZIA.
I grillini, infatti, sognano la democrazia diretta. Anche se non hanno nemmeno votato il loro candidato premier e difficilmente si permettono di contestare il leader, arrivati al parlamento possono dimostrare di crederci davvero. E di non essere solo un movimento di rabbia e protesta.
«Il senso della democrazia diretta è che lo Stato deve riconnettersi alla società e deve rendere conto di ciò che fa», spiega a Lettera43.it Pierre-Yves Guihéneuf, membro dell'Institut de recherche et débat sur la gouvernance di Parigi. «Questo non significa combattere lo Stato, ma contribuire al suo radicamento».
DOMANDA. Quindi altro che anti-politica.
RISPOSTA. Negli Anni 70, quando l'idea della democrazia diretta si è diffusa negli Stati Uniti, si pensava che fosse in contrapposizione con la democrazia rappresentativa: c'era l'ideale dell'autogestione. La democrazia diretta implicava un rifiuto dell'autorità pubblica.
D. I cittadini contro lo Stato?
R. Sì, tanto che l'idea è piaciuta anche ai liberisti. Negli Anni 80 gli organismi internazionali hanno iniziato a sostenere un nuovo impegno della società civile, con l'obiettivo dell'arretramento dello Stato dalla vita pubblica.
D. Le cose funzionano ancora così?
R. Da allora c'è stata una grande evoluzione. Oggi nei Paesi in cui è diffusa la democrazia partecipativa c'è una maggiore domanda di Stato, una richiesta di maggiore connessione con la società.
D. Quindi le istituzioni non ne escono indebolite.
R. Il politilogo americano Benjamin Barber ha spiegato il concetto in Strong democracy(Democrazia forte). Spesso si è pensato che le democrazie dovessero essere regimi deboli per paura che si trasformassero in dittature.
D. E invece?
R. E invece è esattamente il contrario: il rischio di dittatura aumenta dove lo Stato democratico è debole. Ed è debole quando non dialoga con gruppi di cittadini, società civile e organizzazioni.
D. Quindi le forme di democrazia partecipativa sono un argine contro gli estremismi?
R
. Solo la società può difendere lo Stato. Se si disaffeziona e si limita a contestare le istituzioni allora si aprono le porte alla dittatura.
D. È più o meno quello che dice Grillo.
D
. La democrazia diretta è un'idea complessa. Ci sono due concetti che si mescolano. Il primo è che il popolo deve decidere e non delegare: bisogna estendere il numero di persone che prendono effettivamente le decisioni. Questa è la democrazia deliberativa pensata da Jurgen Habermas.
D. E l'altro?
R
. L'altro concetto è il coinvolgimento dei cittadini nell'intero processo decisionale: non devono pronunciare solo un sì e un no alla fine.
D. Non basta dire: potere al popolo.
R. No. Può succedere che l'amministrazione pubblica decida di coinvolgere tutta la cittadinanza con un voto, ma se un progetto è già pronto a che serve? Bisogna farlo prima di approvare il progetto.
D. Qual è la formula di governo corretta dunque?
R. L'ideale sarebbe mettere insieme entrambi i fattori: farsi sentire, ma organizzare anche un'interazione tra le persone.
D. E ci si riesce?
R. In Francia dal 1995 abbiamo una Commissione nazionale per il dibattito pubblico che ha il compito di sostenere la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali.
D. Come funziona?
R
. Sono 21 membri in carica per cinque anni, ci sono un deputato e un senatore che rappresentano il parlamento, rappresentanti del Consiglio di Stato, Corte dei conti e Corte di Cassazione, eletti delle amministrazioni locali, ma anche rappresentanti delle organizzazioni ambientaliste e dei consumatori.
D. E cosa fanno?
R. Valutano quali progetti hanno un impatto socio-economico e ambientale tale da richiedere un dibattito che coinvolga la cittadinanza. 
D. Su cosa sono consultati più spesso?
R. La Commissione è nata soprattutto per le decisioni sui temi ambientali, quando si è capito che sulla gestione dei beni comuni come l'acqua o la biodiversità c'era bisogno di un confronto. Ma poi nel febbraio del 2002 si è arrivati alla legge sulle grandi opere.
D. In cosa consiste?
R. Ogni progetto di grande impatto sul territorio, autostrade o ferrovie, deve essere discusso dalle comunità. Le autorità locali devono fornire tutte le informazioni sul progetto infrastrutturale: dall'elaborazione iniziale agli studi preliminari fino alle analisi dell'autorità giudiziaria.
D. E poi?
R. I cittadini valutano insieme l'opportunità del progetto. E la Commissione nazionale monitora il percorso. Alla fine stendono quello che si chiama 'bilancio partecipativo': la conclusione del dibattito.
D. E a quel punto?
R
. A quel punto entro tre mesi le autorità locali sono tenute a promulgare una delibera con le modifiche al progetto e a inviare il documento alla Commissione nazionale.
DÈ stata consultata anche per le centrali nucleari?
R. No, quelle sono ritenute attività strategiche: quindi nessuna discussione, almeno per ora. Però nelle campagne abbiamo un sistema di concertazione rodato sulla gestione dei fiumi e delle risorse idriche. In questo caso coinvolgiamo al tavolo tutti gli interessati, dagli imprenditori ai contadini e gli ambientalisti fino ai cittadini comuni.
D. Su quali altri temi sono chiamati a esprimersi i cittadini?
R. Seguendo l'esempio della Danimarca, abbiamo sperimentato le 'Conferenze di cittadini' per dibattere temi scientifico-tecnologici quali la clonazione e le nanotecnologie.
D. Come funziona?
R. Vengono selezionati gruppi di cittadini sorteggiati nelle liste elettorali. E si inizia un dibattito a piccoli gruppi: dalle 15 alle 50 persone massimo.
D. Quindi nessuna selezione per competenze?
R. No, nessuna competenza particolare. Al massimo il campione viene selezionato con metodo statistico per essere rappresentativo. E le discussioni proseguono per tre weekend: prima la formazione, poi il dibattito con contradditorio e poi il documento conclusivo.
D. E cosa serve?
R. Qui l'obiettivo è un altro. L'idea è quella di capire se i cittadini una volta informati hanno un'idea sui campi di ricerca in cui lo Stato deve intervenire. Di solito insomma non c'è una traduzione in legge.
D. Non è un fattore da poco.
R. No, anzi, è la vera questione. Perché si possono organizzare processi partecipativi interessanti, ma se poi non vengono tradotti in decisioni politiche...
D. Altre sperimentazioni in corso?
R. In Europa ci sono moltissimi esempi in Olanda, Gran Bretagna, Germania. E anche in America Latina, dalla Colombia alla Bolivia, dall'Ecuador al Brasile.
D. Cosa fanno?
R. Tradizionalmente i campi di sviluppo della democrazia partecipativa sono l'ambiente e le politiche urbane: si sono sviluppate grazie alla tradizione di mobilitazione popolare nei quartieri per chiedere una partecipazione alle decisioni sul territorio. Ma in America Latina la nuova frontiera della democrazia riguarda l'economia e lo sviluppo.
D. Per esempio?
R. L'esperienza più conosciuta è quella del bilancio partecipativo di Porto Alegre, in Brasile, iniziata già nel 1989. Oggi la destinazione di un quarto dei fondi cittadini è deciso dagli stessi cittadini.
D. E poi?
R. In Africa stanno sperimentando nel campo della salute, nella distribuzione del fondo delle Nazioni unite per la lotta all'Aids.
DE funziona?
R. Dipende dai rapporti di potere locali, da quanto è grande la paura della politica di farsi sottrarre il potere.
D. Qual è l'effetto dei processi partecipativi?
R. Permette di avvicinare politici ed esperti ai cittadini. Ma porta anche i cittadini più vicini alla politica perché capiscono che prendere le scelte è complesso.
D. Sembra un paradosso.
R. Tutti sono d'accordo sugli effetti positivi. Il problema è il metodo, perché riunendo 200 persone in una sala non si arriva a molto.
D. Già, quindi?
R. Ci sono studi e inizia a esserci una professionalizzazione, esperti dei processi di partecipazione: non si può usare lo stesso sistema per un affare locale e uno nazionale. E la tendenza adesso è spostare il dibattito a livello nazionale.
D. In Islanda hanno scritto una Costituzione online. La Rete è la nuova chiave?
R. Penso che sia uno strumento utile per mobilitare le persone e aprire spazi di discussione con blog e forum. Ma la vera rivoluzione di internet è l'open data: la pubblicazione online dei documenti della pubblica amministrazione e il libero accesso dei cittadini.
D. Allora sarà la rivoluzione?
R. Nel processo partecipativo la tappa della formazione-informazione è fondamentale: si partecipa solo se si è informati.

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