spirito critico

PENSATOIO DI IDEE

venerdì 25 ottobre 2013

LE POLITICHE ECONOMICHE DELL'AUSTERITY, UN TOTALE FALLIMENTO

LE POLITICHE ECONOMICHE EUROPEE, UN VOLONTARIO FALLIMENTO


Stephen Colbert è il presentatore di un telegiornale satirico in onda su una tv via cavo americana. Nel corso di una puntata dello scorso maggio del suo “Colbert Report” ha commentato con queste parole lo scoppio dell'ormai celebre caso Reinhart-Rogoff: «E ora chi glielo dice agli europei? Sono così contenti dell’austerity, che ogni tanto per festeggiarla scendono in piazza e accendono dei fuochi…». 

La battuta rende bene l'idea di come il dibattito sui temi che tratteremo oggi – intendo dire: anche sugli aspetti più tecnici e teorici delle questioni in campo - sia tracimato ben oltre la cerchia dell'accademia in cui sarebbe stato certamente confinato in “tempi normali”; d'altra parte l'amara ironia di Colbert fa capire quanto le politiche europee di austerità possano perdere molta della loro altezzosa autorevolezza fuori dai confini del continente in cui sono state considerate, fino ad ora, praticamente “indiscutibili”. 

Vale tuttavia la pena ripercorrere un po' più nel dettaglio la storia degli errori e delle clamorose smentite scientifiche ed empiriche cui sono andate incontro negli ultimi anni proprio le politiche economiche europee: da una loro rassegna emergerà chiaramente il ritratto di quella “Europa reale” che è nel titolo di questa sezione del convegno. E, per contrapposizione, potrà delinearsi anche quello dell'“Europa sociale” che abbiamo in mente. 

Ancora nel febbraio di quest'anno Olli Rehn, commissario europeo per gli affari economici e monetari, inviava ai ministri finanziari dell’eurozona una lettera in cui si leggeva: «Il debito pubblico nei paesi EU é salito dal 60% del PIL all’inizio della crisi a circa il 90%. È ampiamente riconosciuto, sulla base di ricerca accademica seria, che il debito pubblico, quando supera il 90%, tende ad avere un impatto negativo sul dinamismo economico, che si traduce in bassa crescita per molti anni. Questo é il motivo per cui un consolidamento fiscale consistente e calibrato rimane necessario in Europa».

Pochi mesi dopo, come sappiamo, un dottorando della University of Massachussetts di Amherst, Thomas Herndon, demoliva incredibilmente lo studio cui faceva implicitamente riferimento Rehn nella sua lettera. Si trattava della ricerca intitolata “Growth in a Time of Debt” pubblicata sulla prestigiosa American Economic Review nel 2010, proprio quando stava deflagrando la crisi greca. La firmavano due celebri docenti di Harvard: Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. Lo studio individuava il limite del rapporto fra debito pubblico e Pil oltre il quale la crescita sarebbe risultata irrimediabilmente compromessa: sopra il 90%, infatti, il tasso di crescita dei Paesi in esame scendeva in media del 4%, posizionandosi sotto lo 0. 

Peccato che quei risultati erano inficiati da un banale errore sul foglio Excel, oltre che da una serie di scelte metodologiche quanto meno discutibili. Non esiste nessuna soglia fatidica del 90% del rapporto debito Pil superata la quale le economie precipitano nel baratro. E anche riconoscendo l'esistenza di una correlazione negativa fra debito e crescita sulla base delle stime econometriche elaborate dai dati di quello studio, è bene ricordare – sopratutto al fine di evitare improprie strumentalizzazioni politiche – che individuare una correlazione non significa dimostrare un rapporto di casualità. È altrettanto possibile, ed è anzi maggiormente probabile, che sia la bassa crescita del PIL a creare elevati debiti pubblici e non viceversa. 

Eppure il lavoro di Reinhart e Rogoff è stato largamente utilizzato dalle istituzioni europee per giustificare e ammantare di autorevolezza scientifica le politiche di austerità imposte durante la crisi. Il premio Nobel Paul Krugman ha addirittura scritto che quella ricerca «ebbe un ruolo cruciale nella svolta delle politiche economiche, con l’abbandono delle manovre anti-recessive sostituite prontamente con politiche di austerity».

Abbiamo per altro accennato ad un caso relativamente recente. Prima di esso c'erano già stati molteplici gridi di allarme, esplicite denunce di errori e finanche plateali autocritiche da parte di studiosi ed istituzioni assolutamente organici al mainstream della teoria economica (e faccio riferimento solo al mainstrem perché gli economisti critici, come alcuni dei relatori presenti anche a questo convegno, ci hanno messo in guardia dalle conseguenze dell'austerity in tempi davvero non sospetti).

Nel gennaio del 2013 il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, ha pubblicato (insieme a Daniel Leigh) uno studio significativamente intitolato “Errori Previsionali di Crescita e Moltiplicatori Fiscali”. È una ricerca che fa seguito a considerazioni già apparse nel World Economic Outlook del Fmi dell'ottobre 2012. Secondo questo studio i piani di aggiustamento fiscale nell'eurozona hanno avuto avuto un impatto negativo sulla crescita nettamente superiore a quanto originariamente stimato. I modelli utilizzati dalla Troika si basavano su un moltiplicatore intorno allo 0,5% (un punto di taglio del deficit avrebbe implicato una minore crescita di circa mezzo punto). Blanchard e Leigh concludevano invece che «i moltiplicatori impliciti nelle previsioni erano sottostimati, in media, di circa un'unità»: non 0,5% ma 1,5 era la grandezza approssimativa cui si doveva fare riferimento. 

Anche in questo caso è possibile individuare una “vittima eccellente” sul piano teorico: è la tesi dell'”austerità espansionistica”, mutuata da uno studio originario del 1998 di Alberto Alesina e Silvia Ardagna. Secondo quella ricerca - intitolata “Tales of fiscal adjustment” e successivamente aggiornata (“Large Changes in Fiscal Policy: Taxes versus Spending”, 2010) - i tagli al deficit statale provocherebbero un effetto fiducia così potente da poter favorire l'espansione dell'economia nonostante la riduzione della spesa governativa. 

E anche in questo caso non sono mancati, ai massimi vertici delle istituzioni europee, appassionati banditori delle teorie pro-austerity. Se prima ho citato una lettera di Rehn, ora è possibile chiamare in causa nientemeno che l'ex presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet. In una intervista rilasciata alla Repubblica nel giugno 2010 l'allora capo della Bce dichiarava: «L'idea che le misure di austerità possano innescare la stagnazione è sbagliata». «Sbagliata?», domandava perplesso il giornalista che lo intervistava. «Sì. In queste circostanze, tutto ciò che aiuta ad aumentare la fiducia delle famiglie, delle imprese e degli investitori nella sostenibilità delle finanze pubbliche giova al consolidamento della crescita e alla creazione di posti di lavoro».

Nel 2011, prima ancora della clamorosa uscita pubblica di Blanchard, sempre il Fondo monetario aveva pubblicato uno studio – firmato da Jaime Guajardo, Daniel Leigh e Andrea Pescatori ed intitolato “Expansionary austerity: new international evidence” (IMF Working Paper 11/158) – nel quale si prendevano in esame 173 casi di austerità fiscale in 17 paesi avanzati fra il 1978 e il 2009 e si concludeva che tali politiche provocano la contrazione del prodotto interno lordo e l'incremento della disoccupazione. È proprio ciò che è avvenuto in Europa con la crisi: dopo una timida ripresa nel 2012 siamo tornati in recessione, mentre gli Stati Uniti – che hanno adottato, almeno nel primo anno dell'amministrazione Obama, politiche fiscali moderatamente espansive (per non parlare delle politiche monetarie) – hanno evitato l'incubo della double dip e sono ora sulla via di un pur timida ripresa. 

Lo scorso giugno, infine, è stato diffuso un rapporto del Fmi in cui si ammette la drammatica sottovalutazione dei danni prodotti dalle misure di austerità imposte alla Grecia. L'autocritica si concentra anche sul ritardo nella ristrutturazione del debito sovrano ellenico, arrivata solo nel maggio del 2012 (due anni dopo il primo piano di salvataggio da 110 miliardi di euro). Tempi più celeri avrebbero evitato, fra le altre cose, la trasmissione del contagio. 

Possiamo trarre la morale di questa lunga rassegna di errori prendendo a prestito ancora una volta le parole da Krugman: «È raro che i dibattiti economici si concludano con un ko tecnico. Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori dell’austerità si avvicina molto a un simile esito. Quanto meno a livello ideologico. La posizione pro-austerity è ormai implosa; non solo le sue previsioni si sono dimostrate del tutto fallaci, ma gli studi accademici invocati a suo sostegno si sono rivelati infarciti di errori e omissioni, nonché basati su statistiche di dubbia attendibilità».
Eppure la sconfitta dell'austerità sul piano teorico non si è tradotta in un cambiamento di segno delle politiche economiche europee, ancora sostanzialmente dominate dagli imperativi dell'austerity. Perché? 

Cercherò di proporre alla fine del mio intervento se non una spiegazione, una “suggestione” utile da dare qualche ragione di questa diabolica perseveranza. 
Prima però è forse necessario fare un accenno a quel che concerne il rapporto fra queste politiche e i trattati che scolpiscono i dogmi dell'austerità direttamente nelle “tavole della legge” dell'Unione. Si tratta di una relazione più complessa di come spesso viene descritta. Esiste certo una correlazione, ma – un po' come nel caso del rapporto fra crescita e debito pubblico – tale correlazione non deve essere scambiata per una casualità diretta, tanto meno unidirezionale (dai trattati alle politiche). I trattati sono al tempo stesso un vincolo posto alle politiche e il “precipitato” giuridico di una cultura politico-economica egemone. Tuttavia la politica è qualcosa di più complicato di quel mero esercizio di contabilità cui vorrebbero costringerla qualche burocrate di Bruxelles: è frutto di volatili contingenze storiche, mutevoli rapporti di forza, rapide composizioni e scomposizioni di alleanze. 

Aggiungo due altri fattori che forse possono contribuire a delineare la complessità del quadro. Si dice spesso - e a ragione - che che la Banca centrale europea è stata edificata sopra i dogmi monetaristi cari alla Bundesbank: diversamente dalla Fed americana, l'unico suo obiettivo è quello tenere sotto controllo l'inflazione. Eppure ciò non ha impedito a Mario Draghi – che si è spinto fino al limite estremo del proprio mandato - di varare il programma Omt (Outright Monetary Transactions) per l'acquisto di titoli di Stato a breve termine sul mercato secondario. Programma che, senza neppure essere mai stato concretamente messo in pratica, ha sensibilmente contribuito a ridurre la pressione sul debito pubblico dei paesi della periferia euro. 

L'altro elemento è costituito dal famigerato Fiscal compact, il trattato entrato in vigore il primo gennaio 2013 che prevede l'obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell'eccedenza in ciascuna annualità. Prescindiamo dal giudizio di merito è lecito domandarsi: abbiamo a che fare con una prescrizione anche solo vagamente realistica? Difficile rispondere affermativamente. Può darsi che sia eccessivamente ottimista, ma faccio fatica a pensare che queste regole così palesemente dannose – e autolesioniste – possano davvero trovare una rigorosa attuazione. Ricordo per altro che i famosi “criteri di convergenza di Maastricht” per l'adesione alla moneta Unica già prevedevano un debito pubblico non superiore al 60%. E non fu solo l'Italia a non rispettare questo limite. Così come, nel 2003, fu la stessa Germania (insieme alla Francia) a sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil senza che la Commissione europea intervenisse a comminare sanzioni. 

Ho fatto questi brevi accenni per sottolineare come l'attuale impalcatura giuridica della Ue vada senza dubbio riformata. Come vanno assolutamente trovate soluzioni ai problemi originati da una moneta unica costruita in assenza di meccanismi in grado di riequilibrare i rapporti fra paesi in surplus e paesi in deficit nelle partite correnti (non posso evidentemente soffermarmi sull'appassionante dibattito intorno al futuro dell'Euro e alle conseguenze che avrebbe una mancata risposta alle questioni appena sollevate. Mi limito ad osservare che la difficoltà cui vanno incontro gli eventuali propositi di riforma dell'Unione europea non sono maggiori di quelli che si troverebbe ad affrontare un processo politico finalizzato a gestire “da sinistra” un'uscita dalla moneta unica). 

Dicevo che ho fatto questi accenni perché non mi nascondo le difficoltà “strutturali” che si frappongono ad un cambio di segno delle politiche economiche europee. Ma anche per avanzare l'ipotesi che queste ultime procedano spesso “parallelamente” alle loro formalizzazioni giuridiche, sospinte da variabili sociali e politiche e a dinamiche degli interessi dotate di un ceto grado di “autonomia”. Ecco perché ritengo valga ancora la pena sforzarsi di promuovere un'“altra politica” propedeutica ad un'altra Europa: l'Europa sociale che dà il titolo alla nostra sezione del Convegno. 
Si ripropone, dunque, l'interrogativo che si era affacciato sopra: perché politiche completamente screditate da un punto di vista teorico continuano a informare le scelte dei massimi vertici delle istituzioni europee (e del paese, la Germania, che “di fatto” detiene la leadership dell'intera Unione)? 

Credo che la situazione in cui ci troviamo oggi non sia in fondo molto diversa da quella che si presentava di fronte a Keynes nella metà degli anni Trenta. All'inizio della sua “Teoria generale” il grande economista inglese cerca di fornire una spiegazione del perché avesse dominato così a lungo l'opinione dei “benpensanti” la convinzione che le economie di mercato tendessero spontaneamente al pieno impiego e non avrebbero mai potuto soffrire di una carenza di domanda aggregata. Questa la risposta che si diede: «Il fatto che [tale dottrina, ndr] raggiungesse delle conclusioni totalmente diverse da quelle che si aspetterebbe l'uomo qualunque ne rafforzava, suppongo, il prestigio intellettuale. Il fatto che il suo insegnamento, tradotto in pratica, fosse austero e spesso sgradevole, le conferiva autorevolezza. Il fatto che si adattasse a reggere una vasta e coerente sovrastruttura logica le conferiva bellezza. Il fatto che potesse spiegare gran parte dell'ingiustizia sociale e la evidente crudeltà come una conseguenza inevitabile del progresso, e il tentativo di modificare queste cose come un rimedio peggiore del male, la rendeva gradita alle autorità. E il fatto che fornisse una giustificazione alle attività del singolo capitalista attirava su di essa l'appoggio della forza dominante che stava dietro all'autorità». Oggi come allora sono queste le forze, le resistenze, i pregiudizi contro cui ci dobbiamo scontrare. Sperando di non ricevere l'“aiuto” di un'altra guerra mondiale per risolvere definitivamente i problemi dai quali siamo affetti. 

(23 ottobre 2013)

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